Negli ultimi anni sembra che basti presenziare in un salotto televisivo perché una ragazza, rigorosamente di bell’aspetto, possa essere definita una showgirl; sembra che bastino la copertina di un settimanale di gossip, un’isola deserta su cui cercare fortuna o un amore social da condividere su Instagram, per meritarsi l’appellativo di ragazza di spettacolo. E il talento?
Il talento sembra diventato un accessorio decorativo. Qualcuna, di tanto in tanto, cerca di improvvisarlo. Ma il talento non si improvvisa e non si impara; si asseconda, quando c’è. Quando non c’è, non conosce soluzioni, né vie di scampo, men che meno scorciatoie.
In poche, astute mosse, quindi, oggi chiunque può diventare una showgirl. Eppure l’Italia sa riconoscere un’artista, se non altro perché è stata la patria di talenti irripetibili, di donne che non hanno assecondato alcun gusto, ma hanno inventato tendenze e anticipato tempi impensati e impensabili. A parlare di Lorella Cuccarini, Heather Parisi o, addirittura, di Mina o Raffaella Carrà, si rischia di essere additati come nostalgici. Ma, se questo è il rischio da correre per salvaguardare una specie ormai in via di estinzione, è lecito rischiare l’azzardo.
È vero, i tempi sono irrimediabilmente cambiati. E, oggi, probabilmente, l’arte, seppur espressa in forme diverse e stratificate, sembra non esercitare più, sul pubblico, la stessa attrazione di un tempo. Il nuovo si esprime attraverso modalità e canali diversi: il web ha sostituito il piccolo schermo, i prodotti del web sono i nuovi vip e il lavoro dell’artista è stato rimpiazzato da nuovi mestieri (quella dell’influencer, su tutti, è la figura che – più e meglio delle altre – cattura l’interesse e l’attenzione del pubblico).
Sembra che il pubblico, ormai, sia disabituato all’arte e a chi ne fa un uso consapevole e meticoloso per esprimere il proprio talento. Come se non bastasse, il nostro Paese sembra poco incline a dar credito ad una artista capace di esprimersi in forme diverse e complementari. In questo scenario demoralizzante, Serena Rossi, quindi, è una mosca bianca.
Serena Rossi è un’attrice, una cantante e una conduttrice; una bellezza prorompente ma rassicurante, peculiare, per questo non stereotipata, accogliente e mai invadente. Una bellezza in perfetta sintonia con il proprio talento; un pregio, questo, che è sintomatico di un’autenticità che trova la sua espressione migliore nel suo volto, nel suo stile, quindi nel suo approccio col palco. Perché Serena Rossi abita il palcoscenico con naturalezza, con disinvoltura, con un’eleganza mai artificiale.
Da due settimane, e per altre due ancora, è al timone – insieme a Neri Marcorè – dello show del sabato sera della rete Rai ammiraglia, “Celebration”. Si tratta di un programma-nostalgia, ripulito anzitempo da qualsiasi avanzo di malinconia, perché il passato non sia un souvenir da spolverare, ma un bagaglio di bellezza da maneggiare con cura, senza riverenza ruffiana. L’obiettivo che si propone “Celebration” è ambizioso: raccontare, in quattro prime serate, la storia della musica internazionale. Nelle prime due puntate i temi portanti sono stati, rispettivamente, la musica pop e quella rock. Nelle prossime settimane, invece, sarà la volta delle più grandi voci della musica mondiale e delle canzoni d’amore che hanno fatto la storia. Quattro serate, quindi, quattro fili conduttori a legittimarle, tanti ospiti e un critico musicale, Ernesto Assante, presente ogni sabato in studio per raccontare gli aneddoti e le curiosità dei brani interpretati durante la trasmissione.
Il pubblico, forse impreparato ad uno show-nostalgia senza nostalgia, l’ha accolto freddamente. Eppure la Rai, di programmi legati al passato, al ricordo e, non di rado, al suo rimpianto, ne ha confezionati tanti, negli anni. E tutti hanno ottenuto un buon successo. Cosa non ha convinto il pubblico, stavolta? La tiepida accoglienza riservata a “Celebration” è da imputare al programma o ad altri fattori? Era evidente sin da subito che il già collaudato Tu si que vales avrebbe dato del filo da torcere al nuovo format di Rai Uno. Era evidente persino il fatto che due attori prestati alla conduzione avrebbero fatto storcere il naso a qualcuno. O a più di qualcuno, a quanto pare. Il pubblico di Rai Uno, nella fattispecie quello del sabato sera, cerca soluzioni e facce immediatamente riconoscibili. E, con “Celebration”, sta facendo fatica. Perché la malinconia c’è, ma ha volti nuovi. Per intenderci, Michele Bravi che canta Elton John è difficilmente collocabile: non interessa alle signore sessantenni, che al suo posto preferirebbero Mal; ma non interessa nemmeno alle adolescenti, che al posto di Elton John preferirebbero ascoltare, semmai, una cover degli One direction.
Dalla guerra dell’auditel, “Celebration” sembra uscire, dunque, sconfitto. È vero che lo share non guarda in faccia nessuno, ma è ancor più vero che il talento non si improvvisa, non si impara e non si calcola. Non è un numero, non è una somma di numeri, non è un picco d’ascolto. Il talento è soltanto un’opportunità. Un’opportunità ben giocata, con personalità, consapevolezza e determinazione, a sua volta diventa qualcosa d’altro. Qualcuno di più. Diventa arte. E Serena Rossi, a buon diritto, è da considerarsi un’artista; una showgirl, nello specifico. Una vera showgirl, di questi tempi è bene sottolinearlo. Sa cantare, recitare e condurre. Ma, a ragion veduta, sa fare anche qualcosa di più: essere riconoscibile, personale, peculiare, nell’aspetto come nei modi. Non somiglia a nessun’altra, ma somiglia sempre ed esattamente a se stessa, qualsiasi sia l’attività che svolga. Serena Rossi è il riscatto di una categoria che sembrava si stesse per estinguere, ma che esiste ancora.
Se, di tanto in tanto, per un lampo di nostalgia o soltanto per curiosità, decidessimo di conoscere il nostro passato, nessuno confonderebbe più la naufraga di un’isola deserta per una showgirl. È vero che i tempi sono cambiati. È vero pure che la bellezza ha connotati nuovi. Ma la sua sostanza è rimasta invariata. Il talento non si improvvisa, non si impara, non si calcola e non si confonde. Non si dovrebbe confondere, perlomeno.