Dopo il debutto alla Pergola di Firenze, in occasione del centenario della nascita (Fiesole, 20 agosto 1923), dopo un tour che ha toccato Napoli, Genova, Padova, il Teatro Studio Melato di Milano ha ospitato una serata tributo ad un grande maestro del teatro italiano: “Un perdente di successo”, ispirato all’autobiografia dell’artista. Si è deciso di titolare lo spettacolo giocosamente così: “Un perdente di successo“, come ha sempre voluto definirsi lo stesso Albertazzi, ispirandosi alla sua autobiografia che torna in libreria edita da Bur.
“Se non ci fossero le donne, la vita sarebbe come una stanza chiusa senza finestre“, usava ripetere Giorgio Albertazzi, scomparso il 28 maggio 2016 all’età di 92 anni, protagonista assoluto del grande teatro (il suo esordio, nel 1949 con Luchino Visconti, in Troilo e Cressida di Shakespeare).
Ha iniziato a fare teatro – ha raccontato lui stesso – perché una bella ragazza l’ha incontrato sul tram e glielo ha proposto. Ma non ci pensava, al teatro. Pensava alle donne! E il cuore di questo spettacolo, un vero e proprio atto d’amore, sono le quattro donne da sempre legate al Maestro, artisticamente e affettivamente.
Il progetto è stato voluto, ideato e curato personalmente da Pia Tolomei Di Lippa, moglie di Albertazzi, l’adattamento per la scena è firmato da Mariangela D’Abbraccio (a lungo suo compagna di vita e di teatro) in scena con altre due grandi attrici, Elisabetta Pozzi (debutta a diciassette anni accanto a Giorgio Albertazzi ne “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello, regia di Luigi Squarzina) e Laura Marinoni (” Giorgio per me è stato un padre, e lo è stato davvero in senso artistico“, che la sceglie per il Cid di Corneille e ne La lezione di Eugène Ionesco al Festival dei Due Mondi di Spoleto e la vuole accanto a se in molti recital di poesia).
Sempre irriverente ai dogmi, agli schemi. Assetato di bellezza e di giovinezza. Bellissimo. Anche nell’età avanzata, con il bastone. Un seduttore, con quel sorriso un po’ beffardo. Aveva questa capacità che è un dono: quella di entrare nelle parole e farle sue e farle volare alto. Una carriera, la sua, che ha spaziato dal cinema alla televisione, da film cult come L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais, con cui vince il Leone d’Oro a Venezia nel 1961, a sceneggiati televisivi altrettanto indimenticabili come L’idiota e Jeckyll. E mai sarà dimenticato il suo Memorie di Adriano della Yourcenar, con la regia di Maurizio Scaparro. Festeggiò il suo novantesimo compleanno celebrando Gabriele d’Annunzio, un suo cavallo di battaglia, un suo poeta prediletto.
In questo adattamento non c’è soltanto “Un perdente di successo” ma anche la sua potente energia vitale, il suo magnetismo, ” il grande gioco del teatro che è vita”, alcune delle sue bellissime poesie, la prima dedicata a Bianca Toccafondi, attrice e prima compagna di vita. Quelle scritte all’amata Pia (molto più giovane di lui), alla cagnetta Pola, quella che ha titolato “Speakeraggio Abertazzi”, una sorta di autoritratto-confessione:
“All’innocenza ci sono arrivato/Mi sono quasi sempre alzato da una disfatta/La mia forza è quando mi raccolgo/La mia massima musicalità quando mi giustifico/ Il segreto della mia conoscenza è l’insoddisfazione/Di ogni cosa vedo l’ombra in cui culmina/Divoro i fatti/ Attenti, quando recito ai vuoti ai contrattempi ai controtempi, all’assenza e al delirio“.
Un recital-concerto dove la musica dal vivo, ricca di contaminazioni e suggestioni, di luce e di ombra, con sensibilità, energia e intensità naviga tra le parole e le canzoni e poesia, creando momenti di grande intensità e commozione.
“Da bambino sono cresciuto in una dependance della villa I Tatti, dove il critico Bernard Berenson (celebre storico dell’arte statunitense, ndr) custodiva arcignamente la sua collezione. Nonno Ferdinando lavorava per lui. Avevamo una sola finestra che dava sui Tatti; Berenson ordinò al nonno di murarla. Così noi andavamo a sbirciare alla Capponcina, la villa di D’Annunzio lì accanto, dove ancora aleggiava l’ombra del Vate“.
Il padre Attilio – bolognese e figlio di un vice capostazione morto schiacciato tra due vagoni – lavorava alle ferrovie locali come addetto agli scambi, il nonno materno muratore. “Da ragazzo ero innamorato di zia Livia, la sorella di mia madre, sposata con zio Alfio. Dopo il 25 luglio 1943 e l’arresto del Duce andarono a prenderlo in quattro, lui aveva una rivoltella in tasca ma non la usò, lo massacrarono di botte, agonizzò per giorni sputando a pezzi i polmoni“.
Struggenti le pagine dedicate alla madre Lina Falsin che si ridusse “er marasma senile a giocare con una bambolina di pezza che veste e spoglia”. Si immalinconiva per non esserci stato alla morte delle persobe care (“Credo non accettasse la morte degli altri“, ha detto la D’Abbraccio). E poi con un tocco di ironia aggiungeva: “E forse non ci sarò neanche alla mia“.
Dall’infanzia, ricordo che lo ha accompagnato sempre, all’amore per la campagna fiorentina, passando per le relazioni sentimentali -Bianca Toccafondi, Anna Proclemer. E ancora, il teatro. Amava ricordare quando, nel 1964, fu il suo “Amleto” con la regia di Zeffirelli a essere selezionato e rappresentato all’Old Vic di Londra per celebrare il 400° anniversario della nascita del Bardo.
Mariangela D’Abbraccio, Laura Marinoni, Elisabetta Pozzi hanno dato voce ognuna con la propria sensibilità e il proprio stile, ai ricordi e alle riflessioni di Albertazzi, regalando agli spettatori un ritratto intimo e profondo di una figura complessa e contradditoria, capace di grande passione e di profonda malinconia, alternando momenti di intensa emozione a tocchi di ironia e leggerezza. (“La salvezza va ricercata nella leggerezza, nel sorriso “, diceva). Le loro interpretazioni, le loro voci, diverse per timbro e intonazione ,nel ricordo riconoscente e amoroso del grande attore, hanno creato un’atmosfera coinvolgente e suggestiva, a cui ha contribuito la raffinata esecuzione musicale di un trio d’eccezione: Gianluca Casadei (fisarmonica), Massimiliano Gagliardi (pianoforte,) e Dario Piccioni (contrabbasso).
Musiche e canzoni amate da Albertazzi e che più gli assomigliavano hanno sottolineato i momenti più intensi della narrazione. Un senso di Vasco Rossi, cantata magistralmente da Elisabetta Pozzi (con molto coraggio Albertazzi aveva detto che una canzone di Vasco Rossi, in certi momenti della vita, vale quando una poesia di Leopardi).
“Bugiardo e incosciente” regala brividi nell’interpretazione di Laura Marinoni. Mentre i versi e le ballate struggenti di Piazzolla come “Vamos ninja” (la storia drammatica di una giovane prostituta morta di colera a 15 ann) si riempiono di emozioni cantate con sensualità da Mariangela D’Abbraccio.
Finale (per uno spettacolo che si vorrebbe non avesse fine) sulle note di “Rinascerò” di Astor Piazzolla, uno dei suoi tanghi memorabili, cantate dalle tre artiste in coro. A guardarle con quel suo sorriso su un grande schermo schermo, il volto di Giorgio Albertazzi.
“Io nascerò un’altra volta/ In una sera di giugno/Con questa voglia di amare/ E di vivere più che mai/Rinascerò, è destino/ Nell’anno 3001/ Sarà una festa di colori/ Giungerò dall’aldilà/ Ritornerò, ricrederò e lotterò“.
Questo brano Giorgio Albertazzi lo aveva recitato, sul palco del teatro Quirino di Roma, tra recita e verità, negli ultimi minuti dello spettacolo omaggio a “Borges Piazzolla” insieme a Mariangela D’Abbraccio. Una serata davvero speciale, che ha commosso e coinvolto il pubblico e premiato con applausi meritatissimi.
Consentitemi infine una nota di carattere personale. Ho visto Giorgio Albertazzi molte volte in teatro e ogni volta è stato profondamente emozionante. L’ultima, febbraio 2009, proprio al teatro Streheler. Barbetta bianca da Achab, nella messa in sccena del “Moby Dick” per la regia di Antonio Latella, che ha inserito nel testo di Melville frammenti dall’Inferno di Dante e alcuni rimandi a Shakespeare. Albertazzi chiudeva lo spettacolo con la recita del celebre monologo di Amleto: essere o non essere. Seduto sul bordo della ribalta, metaforico ponte del Pequod che si inabissa fra le acque dopo aver arpionato la Balena bianca, lancia le parole oltre il palcoscenico, nel limitare buio delle cose, dell’esistenza. Strepitoso: appassionato, razionale, malinconico, struggente. Indimenticabile Albertazzi.