
Da Burri a Fontana, da Afro a Capogrossi, a Piero D’Orazio e poi via via opere di Giosetta Fioroni, Carla Accardi, Giulio Turcato, Tano Festa, Pietro Manzoni , Pino Pascali e Mario Schifano solo per citarne alcuni. È la prima volta che un così cospicuo numero di opere (per un totale di 79, suddivisa in dodici sale) autentici capolavori realizzati dai grandi Maestri dell’arte italiana del secondo dopoguerra che hanno plasmato la scena artistica nazionale e internazionale esce dalle sale della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma e viene ospitata nelle Sale Chiablese dei Musei Reali di Torino (1950-1970. La grande arte italiana. Capolavori dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Musei Reali di Torino, Sale Chiablese, dal 19 ottobre 2024 al 2 marzo 2025).
Un appuntamento imperdibile. Che vale un viaggio. E’ più di una mostra: è un viaggio nel tempo, per scoprire una stagione irripetibile di feconda creatività artistica e sperimentazione. Un’esperienza di gioia. E’ quella gioia che scaturisce dalla bellezza dell’arte capace di parlare alla dimensione più profonda dell’uomo e che simile a un dardo ti colpisce. Come un’apparizione improvvisa, qualcosa che ci sorprende, che ci stupisce che ha dato scacco al perbenismo della visione chiara delle cose. Perché un’opera d’arte non si spiega, la si vive. La si compenetra.
L’allestimento assicura un’atmosfera emozionante immersiva. Siamo in un museo, ma lo abbiamo visitato come un luogo sacro. Sto parlando della possibilità di guardare il mondo con occhi diversi, nel senso che uno dice girando per le sale e guardando quest’immenso patrimonio di bellezza e dici «Toh, guarda il mondo potrebbe essere diverso da come mi è apparso finora. È il linguaggio dell’arte che ci parla della libertà, che ci dice che la libertà non è soltanto una fantasia, ma è qualcosa di molto reale contro una visione massificata, consumistica e omologante. E i giovani potranno anche trovare un esempio di risposta salvifica davanti allo sgomento, alla frustrazione, all’impotenza che oggi li attanaglia della società di massa ad alto tasso tecnologico e della riproduzione modulare. e farsi contagiare dalla spinta creativa di questa stagione artistica, divisa ancora tra la lacerante ferita della guerra e l’entusiasmo necessario alla ricostruzione. L’arte per definizione stabilisce un confronto con la realtà esterna proprio a partire dalla messa in discussione di questa. L’artista è l’artefice di una produzione artigianale che lo segnala nella sua differenza emblematica dai codici massificati del sistema sociale. Ed è orgoglioso dell’unicità della sua avventura, in quanto portatore di un atteggiamento individuale e irripetibile. Tale orgoglio diventa la cifra che accompagna (dovrebbe accompagnare) l’arte e l’artista contemporaneo.
La mostra, visibile sino al 2 Marzo 2025, curata dalla direttrice della GNAM Renata Cristina Mazzantini e dallo studioso Luca Massimo Barbero, è stata fortemente voluta e resa possibile da Mario Turetta, Capo Dipartimento per le Attività Culturali del Ministero della Cultura e direttore delegato dei Musei Reali di Torino.
Impossibile in questa occasione non sottolineare il ruolo centrale nel dibattito artistico avuto, durante quei decenni, da Palma Bucarelli, leggendaria direttrice di quell’istituzione, che ne resse le fortune dal 1941 al 1975, che si è adoperata incessantemente per l’acquisizione di opere e collezioni che costituiscono oggi l’unicità del patrimonio artistico custodito alla GNAM. Prima direttrice di un museo italiano. Bella e con l’allure di una diva del cinema, scalpitante scopritrice di talenti, ebbe il coraggio nel ’59 di inserire le tele di sacco di Burri in collezione, provocando anche un’interrogazione parlamentare sul prezzo pagato. Prima di qualsiasi museo nazionale, fece infatti entrare nelle sue sale i quadri specchianti di Pistoletto, le corrosive critiche al potere costituito di Franco Angeli, le provocazioni di Piero Manzoni e, a meno di un anno dal suo tragico incidente in motocicletta, l’opera di Pino Pascali.

Genesi, 1955-56
Assemblage in ferri di recupero, 200x60x65 cm
Stagione irripetibile. dicevamo. Annunciata in rassegna da due opere che subito ti avvertono delle dirompenti visionarie “bizzarrie” che ti aspettano nel lungo percorso espositivo. La scultura di Ettore Colla (Parma,1896 – Roma, 1968) rilievo con bulloni del ‘58/’59 assemblato con ferri di recupero raccolti nelle discariche urbane post guerra, l’autore della vertiginosa “Spirale” lanciata all’assalto del cielo fatta collocare da Palma Bucarelli nel 1968 davanti allo scalone d’accesso alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. “L’arco di Ulisse” del ’68 realizzato dal pugliese Pino Pascali, realizzato con legno e lana d’acciaio evoca gli archetipi di antiche civiltà e mondi naturali scomparsi e affronta con ironia la relazione irrisolta tra natura, cultura e industria.
Particolarmente coinvolgente e scenografica la sezione con le opere di Afro e Piero Dorazio, maestri che nel secondo dopoguerra contribuirono al successo dell’arte italiana negli Stati Uniti. Afro Basaldella (Udine 1912-Zurigo 1976) . La pittura di Afro, figura centrale dell’espressionismo astratto e lirico a livello internazionale, è pura emozione. Impossibile non restarne colpiti: grandi campiture di colore intessute con i segni veloci, e il fondo, questo fondo impastato di cenere, sedimento d’ombra, ma di un’ombra che è un’ombra di luce (” Io spero che nelle mie pitture circoli un presentimento, una speranza, come di un alba”). Sinfonici sprazzi di colore-luce arioso, trasparente, sensuale e leggero.
Vi siete mai persi dentro i colori di un quadro?’ E’ questa l’emozione che si prova osservando le opere di Piero Dorazio. (Roma, 1927 – Perugia, 2005). Fasce di colore che si espandono nello spazio secondo geometrie sempre diverse. In un testo del 1977, Dorazio dichiara di aver imparato da Balla che non esistono le immagini, senza tenere conto della luce che le compenetra e le fa palpitare insieme a tutto ciò che le circonda. A partire dal 1962-63 i valori cromatici si accendono, e Dorazio studia vere e proprie trame di colore come architetture, partiture di scale cromatiche, fiammate di colore, su fasce che si intersecano, atte a far scaturire una luminosità sempre più intensa dalle modulazioni tonali, Lo spazio va assumendo sempre di più la fisionomia di un campo di forze luminose: le linee dei “reticoli” vanno allargandosi in grandi bande splendenti, che creano un forte effetto di risonanza cromatica.
«Io cerco di ritrarre lo spazio dell’anima», diceva Giuseppe Capogrossi (Roma 1900–1972). Inventa un suo alfabeto con il suo caratteristico segno (definito talvolta dalla critica come un pettine o una forchetta, artiglio, a seconda dei punti di vista) . Senza mai tradirlo, Ingrandendolo riducendolo, stilizzandolo, deformandolo e mettendola in costante relazione con lo sfondo e la superfice pittorica, dà vita a una nuova geometria tramite la quale rappresentare il mondo soprattutto nero su bianco, con accensioni di rosso.
Che stanza meravigliosa quella dedicata ad Alberto Burri (Città di Castello 1915- Nizza 1995) e Lucio Fontana, per la forte carica evocativa e drammatica del loro linguaggio pittorico. Due giganti che evocano la lotta tra materia e antimateria, l’essere e l’annichilimento posti in dialogo. Dallo straordinario “Gobbo” del ’50 di Alberto Burri al Ferro SP (Lamiera di ferro saldata, olio e puntine su struttura in legno). La luce del nero di Burri, la potenza della materia avvvolge i visitatori. Una vertigine densa, scura, un profondo mare nero, in cui il nero diventa carne, pelle e struttura che si piega, si lacera. luogo segreto dove alberga il “mistero oltre l’apparenza” come disse Guido Ballo. Più che un nero è il “suo” nero, mai identico a se stesso; cambia forma, dimensione, crea uno spazio all’interno del quadri. Le sue opere fatte di legno, ferro catrami e sacchi di juta, rovine raccolte tra le macerie lasciate dalla guerra, portano tracce di lacerature, saturazioni, cauterizzazioni, su cui riflettere la drammatica condizione esistenziale dell’uomo. (Dopo la laurea in medicina, conseguita a Perugia nel 1940, a seguito degli eventi bellici, fatto prigioniero in Africa dalle truppe inglesi e consegnato agli alleati statunitensi, trascorre tre anni in un campo di prigionia in Texas, durante i quali decide l’abbandono della professione medica e di dedicarsi totalmente alla pittura). E lo spazialismo dei tagli di Lucio Fontana (Rosario, Argentina 1899 Comabbio 1968) che evoca l’energia di una trasformazione cosmica in atto su un pianeta o in una galassia: liberi dai confini della materia si attende, appunto, che nasca qualcosa di nuovo, aprendosi a nuove dimensioni di spazio e tempo.
A Michelangelo Pistoletto (Biella, 1933) universalmente conosciuto per i suoi Quadri specchianti. è dedicata una saletta con un grande quadro specchiante del 1968. E che dire della maestosa imprevedibile “Superficie lunare”, che evoca il suolo del satellite attraverso una stesura minima di acrilico su di un materiale industriale come la gommapiuma, di Giulio Turcato (Mantova 1912 Roma 1995)fra i più significativi interpreti dell’astrazione europea del secondo Novecento, la sua arte fu influenzata anche dal Futurismo, e Turcato non si lasciò mai ingabbiare nelle dicotomie politiche che governavano il mondo dell’arte. Trovando nella forma-colore la ragione di una ricerca inesaustta, una sperimentazione durata sino ai suoi ultimissimi anni di vita. Come scrive lo stesso artista, nel 1977: “ I colori sono la nostra libertà/ investono la materia e la trasformano/ la nostra fantasia è realtà nuova”.

Senza titolo, 1962
Décollage, 64×54,5 cm
© Rotella Mimmo, by SIAE 2024
Nella Roma tra gli anni Cinquanta e Sessanta – coinvolta dall’entusiasmo del boom economico, la dolce vita di Via Veneto, le colossali produzioni di Cinecittà, i nuovi media e l’attualità filtrata dalla televisione, dal cinema, dai rotocalchi e dai quotidiani sono i nuovi sistemi di comunicazione che andarono a definire una ‘nuova mitologia’ che modificò radicalmente gli immaginari collettivi. Procedendo nelle sale , si incontrano gli strappi di Mimmo Rotella (Catanzaro 1918- Milano 2006) con il suo gesto estremo della “lacerazione dei manifesti pubblicitari” ( lo strappo era “la sola compensazione, l’unico modo di protestare contro una società che ha perduto il gusto del cambiamento e delle trasformazioni strabilianti, dichiarava l’artista) che in mostra firma anche una “realista” silhouette nera del presidente Kennedy, di spalle, al telefono.

Composizione, 1950
Acrilico su tela, 68×85 cm
© Accardi Carla, by SIAE 2024
Giosetta Fioroni (Roma, 1932) fortemente ispirata alla “nuova mitologia” creata dai “nuovi media” (tv, cinema e rotocalchi) Una delle opere più emblematiche della Fioroni, Ragazza tv realizzata durante la sua fase “argentea” (grazie all’uso di un smalto argenteo che dona alla composizione un’atmosfera surreale e straniante) esplora temi legati a identità, femminilità. E la siciliana Carla Accardi (Trapani 1924, Roma 2014) figura fra le più rappresentative dell’“Arte Povera”. Fino alla poetica del segno di Bice Lazzari (Venezia 1900 – Roma 1981).

Paesaggio versione anemica con smalto e
anima, 1965
Smalto su tela, 218×200 cm
© Mario Schifano, by SIAE 2024
Mario Schifano (Homs Libia, 1934, Roma 1998) è stato un fiume in piena, un artista “maledetto e trasgressivo”, che ha prodotto una quantità torrenziale di opere, rapidamente, violentemente, ingoiando e rimaterializzando immagini senza soluzione di continuità, succhiate dalla vita privata, vissuta sotto il segno dell’intensità, i dal medium televisione, da viaggi fisici ed onirici. Tra i primi a sperimentare innesti tra pittura e musica, cinema, video, fotografia, con attenzione alla multimedialità. Tra le opere più suggestive esposte “Uomini a passeggio” con quel colore arancio così pieno di energia, e “Incidente D662”, smalto su carta intelata, a d esempio, la raffigurazione viene depurata da qualsiasi pathos o dramma, richiamando la distanza emotiva che i mass media introducono quando trattano notizie drammatiche, riducendole a semplici immagini ripetute e consumate (nello stesso anno Andy Warhol moltiplica 19 volte in bianco e nero due auto sfasciate in un incidente stradale).

Achrome – Lana di vetro, 1961
Fibra di vetro, 87,2×79,5×21,5 cm
© Fondazione Piero Manzoni, Milano Foto Silvio Scafoletti
Abbagliante il bianco impaginato con nitidezza ed eleganza in un gioco leggero e fantasioso che restituisce movimento alla fissità dell’immagine) su sfondo blu dei celbri Achrome di Piero Manzoni (Soncino, 1933 – Milano, 1963) , scomparso a soli 29 anni. Una serie di creazioni tutte bianche realizzati con materiali incolori come il cotone, il feltro, la fibra di vetro e il polistirolo. “La mia intenzione è di presentare una superficie completamente bianca che non è né un paesaggio polare, né un oggetto evocativo o bello, e neppure una sensazione, un simbolo o qualsiasi altra cosa: ma una superficie bianca, che non è altro che una superficie incolore e che molto semplicemente è”.
A chiudere il percorso ancora il geniale Pino Pascali (un artista formatosi alla Scuola di Scenografia all’Accademia di Roma, con Toti Scialoja). Pantaloni di velluto attillati e a vita bassa, , occhialoni da sole, capelli ricci in disordine . Nelle foto che gli hanno scattato (soprattutto quelle di Ugo Mulas) Pascali interagisce in modo scherzoso con le sue stesse opere. Nei quattro anni che precedettero la sua morte in un incidente con la moto, stravolse e segnò in eterno la scena artistica Anni Sessanta italiana e internazionale. Nell’evocazione di un Mito che nasce dentro e non contro la cultura mass-mediale. I materiali usati da Pascali sono sia naturali sia industriali, e spesso lui ama impiegarli in modo sorprendente. “Ricostruzione del dinosauro” del 1966 e i famosi Bachi da setola del 1968, cinque enormi bachi fatti di spazzole di materiale acrilico (setole acquistate alla UPIM) e con la loro presenza aggressiva invadono lo spazio in cui sono ospitati. Emblema del consumismo e della natura uniti in un solo animale. Pascali crea un singolarissimo immaginario visivo, guidato da un chiaro spirito ludico e ironico, generatore di un’atmosfera decisamente surreale. E poi quel rosso fuoco “Primo piano labbra” rosse del ’64, sarcastico rimando pop all’aggressività massmediale di certa pubblicità rivolta al pubblico femminile di allora. che sta anche sulle locandine pubblicitarie della mostra e infine sui magneti da frigo esposti nel book shop (una debolezza a cui ho ceduto). Infine i “Ruderi sul prato”: un’opera più prossima alla scultura, usando il tessuto spugnoso al posto della pietra e del marmo, richiama le rovine della antica Roma, e quella nuvola con la sua metafisica sospensione fra i capitelli che è poesia. Che rimane addosso anche giorni dopo aver visitato la mostra.