Marco Benedetti, nato a Rovereto nel 1964, dopo il liceo Artistico a Verona si è laureato in Architettura al Politecnico di Milano, vive e lavora a Varallo Pombia (Novara) da oltre vent’anni, un paesello incantevole sul lago Maggiore, lontano dalle distrazioni della città e immerso nella natura di metafisica bellezza, dove nascono i suoi dipinti “classici-moderni”, direbbe Margherita Sarfatti e tra tele e colori sparsi ovunque, qui c’è spazio anche per la scrittura, la lettura e gli incontri con intellettuali e amici di un pittore novecentista ma non nostalgico.
Come ti trovi nel tuo atelier armoniosamente disordinato?
Per lavorare ho bisogno del mio ordine/confusione che regna sovrano. L’humus che mi permette di creare.
Quando hai scelto di dipingere e perché?
Ho sempre dipinto e ho sempre pensato che volevo fare quello.
A cosa serve la tua arte, per chi dipingi?
Principalmente dipingo per me stesso, è una sorta di terapia per la vita. Ho visto che i miei lavori comunicavano emozioni alle persone che avevo vicino. Questo mi gratifica e mi da stimolo in questa avventura di creare qualcosa che non esiste e poi improvvisamente appare sulla tela e mi sorprende!
Prediligi la figurazione e pratichi anche la scultura, probabilmente la critica d’arte Margherita Sarfatti, promotrice nel Gruppo Novecento italiano tra le due guerre del secolo scorso, ti avrebbe scelto per il tuo ritorno all’ordine, alla figurazione e per una “moderna classicità”, ti riconosci in questa ricerca, perché?
Si, mi riconosco perfettamente nell’assunto della Sarfatti. Credo che dopo tanti anni di arte concettuale o duchampismi vari un’po’ di figurazione non possa che stimolare una nuova coscienza e rinnovare i codici visivi della pittura sempre contemporanea.
Che colori utilizzi e quali sono i soggetti più ricorrenti nel tuo lavoro?
La tecnica che prediligo è la pittura ad olio anche se in realtà molte volte mischio più tecniche insieme. Sicuramente la figura umana e disumana è al centro del mio interesse, ma anche gli oggetti, che io credo posseggano spirito, vengono trattati allo stesso modo. Ogni opera richiede una particolare tecnica, seppure resto fedele alla pittura ad olio per scelta personale.
Di recente hai tenuto una mostra nell’atelier Ditta Crespi, di Massimo Morlacchi a Milano nel cuore di Brera, quali lavori hai esposto e perché hai scelto così tante sculture?
Da Massimo ho esposto una parte dei lavori presenti nelle mostre di Parigi, Venezia ed Orvieto. Sono i DEAMONS questi esseri nati quasi autonomamente dalla creta che io ho cominciato a ritrarre per individualizzarli avvalendomi, nel percorso di conoscenza, dell’apporto di scrittori, poeti e musicisti a cui ho affidato la responsabilità di creare i loro nomi e le loro storie in questo processo di individualizzazione. Le piccole sculture presenti nell’Atelier Crespi, che ho chiamato MUTAFORME, sono quegli esseri in nuce destinati a diventare forse DAEMONS.
Sei un virtuoso manierista e citazionista, dal solido impianto grafico e formale, ti piace copiare le opere dei grandi maestri della pittura? Perché?
Sono affascinato da tutto quello che è successo nella pittura. Tutto quello che ho visto è entrato dentro di me e sicuramente esce attraverso i miei lavori con devozione e rispetto.
Ti consideri un erede della Transavanguardia, perché?
La transavanguardia ha messo in luce pittori che sicuramente mi hanno interessato. Impossibile non esserne colpiti. Non so se sono un erede di quel periodo, certo è una parte della storia della pittura italiana che non mi ha lasciato indifferente.
Come scegli il titolo delle opere?
Molte opere non hanno titolo. Il titolo, se arriva, arriva dopo. Magari anche dopo molto tempo. Devo prima capire che cosa ho fatto e da dove si manifesta e capire come le percepisce il pubblico.
Tra i protagonisti del Gruppo Novecento italiano, ti senti più vicino ai toni monumentali scultorei di Mario Sironi oppure alla Metafisica di Carlo Carrà e Giorgio de Chirico? Perché?
Tutti questi maestri della pittura italiana mi hanno fortemente affascinato. Non saprei chi più chi meno. Li amo tutti in maniera uguale e sono comunque un punto di riferimento nel mio lavoro.
Come motivi il tuo eclettismo poliedrico tematico e formale?
Faccio quello che sento senza chiedermi perché. Meravigliandomi sempre di quello che viene alla luce
Quale ciclo di opere riflette al meglio l’uomo che sei diventato oggi?
Non so, non saprei, non sento differenza tra le mie opere e l’opera che io sono.
Quale opera del passato avresti voluto dipingere che ti “rosica” perché non hai avuto quell’idea per primo?
È un fumetto: Zanardi di Andrea Pazienza.
Come nasce un’opera e che obiettivo ti poni quando dipingi?
L’opera nasce da un bisogno insopprimibile di creare, di vedere cose che prima non c’erano. L’obiettivo è quello di conoscermi per capire perché esisto e perché vedo e sento e guardo il mondo con questi occhi e perché.
Quali sono le opere che ti rispecchiano di più e perché?
Non c’è un opera in particolare, tutte sono state volute con amore ed attenzione. In tutte ci sono frammenti di me in un modo o nell’altro.
Lavori di giorno o di notte?
Nella giovinezza prediligevo la notte come momento ideale per l’arrivo dei suggeritori dell’anima. Ora si sono presi la mia anima e lavoro di giorno, tutti i giorni; è una necessità.
Che importanza ha la luce nella tua ricerca?
E’ fondamentale ed è ciò che da anima e spazio a quello che faccio.
Chi acquista le tue opere e chi è il tuo pubblico?
Le mie opere sono state acquistate da imprenditori, professionisti, operai, studenti. Il mio pubblico sono tutte quelle persone che vedendo i miei lavori mi danno notizia del mio esistere.
Vivi della tua arte o fai altro per vivere?
Vivo della mia arte. A volte molto bene, a volte meno. Lavoro e vendo a collezionisti, amici che seguono il mio lavoro.
Ti sei mai cimentato in un progetto ambientale con opere site -specific di grandi dimensioni, se sì dove e quando?
Si, ho progettato opere di Land art dove ho mischiato architettura e scultura e suggestioni musicali. Molti progetti sono rimasti sulla carta. Altri hanno visto la luce. Uno di questi è la tomba di Emanuela Loi, la poliziotta morta nella strage di Paolo Borsellino a Sestu (Cagliari), realizzata nel 1993.
Nel tuo lavoro la fotografia è fondamentale, quando riesci a superar l’oggettività –realista che questo strumento ti garantisce?
In alcune opere utilizzo la fotografia: Il fotografo sono io quindi la fotografia è parte integrante del processo di costruzione dell’opera. A un certo punto, lungo la strada, la fotografia si sublima e continua la pittura autonomamente. Luca Andreoni, amico e fotografo che segue il mio archivio dei lavori realizzati dagli anni’80 ad oggi, sovente ci troviamo a discutere sul rapporto tra pittura e fotografia e viceversa , linguaggi convergenti ma differenti.
Cos’è per te la pittura e a cosa serve oggi nell’era digitale?
Per me la pittura è un bisogno ed è materia. Forse serve a ricordarci che siamo corpi.
Cosa pensi dell’ Intelligenza Artificiale?
Ne so ancora molto poco, ma sono curioso di vedere che cosa succederà.
Quale progetto stai sviluppando?
Sto ultimando altri tre DAEMONS per affiancarli ai 7 di Parigi e ai 2 di Venezia e portarli tutti e 12 a Istanbul. E poi si vedrà, le idee non mi mancano.
Crediti fotografici per tutte: Luca Andreoni