Anche chi medita può protestare

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Foto di Jishnu M da Pixabay

Le palestre hanno chiuso e così tutti i centri yoga e di meditazione. Questo ha scatenato lo scontento di molti. Ci sono state manifestazioni, proteste, scontri, flash mob, mobilitazioni da parte dello CSEN e non solo. Il malcontento è tanto, troppo.

In questo periodo mi è capitato di leggere alcuni post sui social di persone rimaste stupite per le proteste e la rabbia da parte di insegnanti di yoga, meditazione e discipline olistiche in genere.

C’è un concetto che mi è caro della meditazione: l’accettazione, parola troppo spesso travisata, abusata, mal compresa e su cui esistono un’infinità di stereotipi.

“Accettare” non vuol dire subire, non vuol dire essere inermi e farsi scivolare semplicemente tutto addosso. “Accettare” vuol dire essere consapevoli di quello che sta succedendo, accoglierlo, senza fuggire, e poi trovare il giusto modo per provare a rispondere in maniera assertiva a una situazione, anziché reagire in modo eccessivo, violento, ma nessuno ha mai detto che questo significa tacere e diventare delle persone passive.

Il Dalai Lama, per esempio, esprime il suo malcontento quando c’è da combattere per qualche causa per il bene di tutta l’umanità, anzi, è proprio lì che ogni grande maestro si fa sentire e fa valere le proprie ragioni.

Anni fa il professor Owen Flanagan pose al Dalai Lama la seguente domanda: “Se servisse a impedire l’Olocausto, uccideresti Hitler?”. Come viene raccontato nel libro Contro l’empatia di Paul Bloom, il Dalai Lama si consultò con gli alti lama e rispose che sì, bisognerebbe ucciderlo ma senza essere arrabbiati, perché ucciderlo “significherebbe fermare una catena karmica cattiva, molto cattiva.” Sosteneva che fosse un male necessario, un’ultima istanza, e che un individuo premuroso e razionale può usare la violenza se non ci fosse altra possibilità, compreso l’omicidio.

E pensiamo ai monaci buddhisti che negli anni ’60 si sono dati fuoco in Vietnam. Il caso più famoso fu quello del monaco Thích Quảng Đức, che si diede fuoco a Saigon nel ’63 per protestare contro l’amministrazione del presidente del Vietnam del Sud, il cattolico Ngô Đình Diệm, perché aveva attuato una politica di oppressione della religione buddhista. Furono ben trentadue le persone che imitarono Thích Quảng Đức, sia monaci sia laici; così in Tibet, dove decine di monaci si sono date fuoco dal 2009 a oggi per protestare contro le repressioni della Cina, che occupa il paese ormai dal 1950. I monaci chiedevano il ritorno del Dalai Lama e la liberazione della loro terra.

E non dimentichiamoci della rivoluzione di Gandhi, che con la sua non-violenza, il digiuno, pagando con la prigione e alla fine con la vita, si batté strenuamente per ottenere l’indipendenza dell’India dall’Impero britannico.

Uomini devoti, santi, meditanti, religiosi, si sono battuti e continuano a farlo per difendere la libertà e i propri e altrui diritti fondamentali.

Non stupiamoci, quindi, se anche in Occidente vediamo insegnanti e meditanti che si battono per quello in cui credono, l’importante è cercare di protestare in maniera pacifica per quanto possibile.

Perché “accettazione” non vuol dire evitare di difendersi e farsi uccidere se qualcuno mette in pericolo noi o altre persone. Non vuol dire non far mai sentire la propria voce. Non vuol dire sottostare a leggi folli e ingiuste. Non vuol dire diventare delle persone passive, indolenti e rassegnate. Non dimentichiamocelo mai.