“Farràgine” di Marco Amore, “libromassa” fra politica e…amore

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"Farràgine" di Marco Amore, "libromassa" fra politica e...amore
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Farràgine (Samuele Editore, 2019, pp. 64, euro 12) è un testo complesso che segna l’esordio di Marco Amore come poeta.Si tratta di un’opera difficile sia per scelte stilistiche che per struttura,  che mostra fin dalle prime pagine la propria contraddittorietà.

Giovanna Frene, critica e poeta, che ne sigla la prefazione, scrive a riguardo: “è un libro contraddittorio, perché ha movenze da summa e insieme da sacello di aforismi; ha la sostanza delle strutture calcaree, ma insieme la concrezione della ressa che preme, rigetta, stritola, spezzetta, e fa emergere frammenti, capovolgimenti, interrogazioni“.

Il titolo di quest’opera che l’autore scrisse nel 2011, quando aveva soltanto vent’anni, richiama un ammasso di erbe diverse o più genericamente il farro. Si tratta effettivamente di un “libromassa”, miscuglio di parole dove la contraddittorietà la fa da padrona anche nell’animo del poeta, chiuso nella propria stanza a tormentarsi, mentre la donna amata non perde occasione per dileggiarlo con lo sguardo o il pensiero.

Così il poeta, ferito e umiliato, fa i conti con le proprie disillusioni: penzola l’arto dalla pacifica branda. Ho il cuore all’inferno e il corpo disteso sulla lana. Il Lete rimbalza tra le sue pallide forme. Cedevoli? Vellutati? Sprimacciati cuscini su cui riposa il corpo di un altro /, e l’Acheronte e il Cocito tra quegli occhi arrossati. La mia donna non è mia. La mia donna è su internet”.

L’opera è dedicata a Lucia, una Cenerentola a rovescio; il lettore fin da subito è dunque allertato sul fatto che non ci sarà un epilogo felice. Si tratterà di un viaggio negli inferi. Nella poesia Cin Cin si legge: “quanti oboli ho pagato al traghettatore? Tuttavia si è rifiutato di recapitarmi sulle opposte, cupe rive dell’Acheronte. Pertanto mi bagnai nel Gange. DIVIETO DI BALNEAZIONE nei profluvi orientali. Ma se sono di aromatico vino da esportazione /…/ torrenti, fiumi, greti e canali impregnati del vino delle messe. / E ne sono ebbro. Il poeta cade sotto i ripetuti assalti al cuore dell’amata ammaliatrice e altro non gli resta da fare se non cercare di salvarsi attraverso i propri versi.

La sensazione più forte che si ha, leggendo queste pagine, è che ci si sia imbattuti in un testo colto, con un lessico ricercato, in cui trovano anche ampio spazio i giochi di parole. Il lettore viene condotto in uno spazio sognante, quello del poeta solitario e scontroso: La misantropia è il mio pane quotidiano. Beato Molière, in cui egli stesso combatte a colpi di lucidità il miraggio di un oblio a cui sarebbe ben più facile abbandonarsi. L’ideale perseguito è la bellezza imperfetta / la bellezza è un ideale e in quanto tale può essere inventato.

Un’ultima considerazione si rende necessaria circa la parola “politica” che nel libro si incontra a più riprese. È da intendersi come approccio all’esistenza, un interrogarsi per provare a comprendere, infine anche invettiva contro un sistema dove la libertà  sembra sovente compromessa: ho già bistrattato la politica in precedenza, ma l’ho fatto / allusivamente. Ho deciso di rifarlo meglio: / la politica è la religione professata dagli ecclesiasti del dio è morto /…/ la democrazia è il malinteso più volgare dell’uomo, / si tenga presente che, per l’attuale sviluppo, non si può fare a / meno dell’equivoco.