Un bicchiere di Vodka Martini. L’irriverenza e la provocazione di uno dei più grandi autori del Novecento, con la conseguente visione dissacrante del ruolo dell’arte e dell’artista. Perché “tutta la letteratura è pettegolezzo” per raccontare tra le pagine dei libri le contraddizioni dell’America. Con i suoi lati nascosti, compresi quelli più ombrosi che emergono in una scrittura vivace e snob, leggera ma profonda.
All’Off Off Theatre di Roma, fino al 17 marzo, va in scena Truman Capote- Questa cosa chiamata Amore, pièce che vuole essere un tributo allo scrittore americano padre di opere come A Sangue Freddo e Colazione da Tiffany, nata dalla penna di Massimo Sgorbani, interpretata da Gianluca Ferrato diretto da Emanuele Gamba e presentata da Florian Metateatro in collaborazione con il Teatro Nazionale della Toscana.
Il vortice dello star system nel quale è facile essere risucchiati, l’esibizionismo di un dandy del secolo scorso, l’anticonformismo trasformato in testi e parole per parlare di un sentimento nobile come l’amore. A teatro, con le scene di Massimo Troncanetti, i costumi di Elena Bianchini e l’aiuto alla regia di Jonathan Freschi.
Capote parla senza freni del jet set hollywoodiano, da Marilyn Monroe a Jackie Kennedy, tra cadute e risalite, e quello stile decadente in cui l’eccesso diventa la forma di espressione artistica di un uomo che ha saputo sfidare, senza limiti, le convenzioni sociali. “Non ho preteso di scrivere una biografia teatrale di Truman Capote, né un’ambiziosa ‘interpretazione’ della sua figura letteraria. Tanto meno di portare sulla scena quel che lui ha già detto meglio di chiunque altro. Solo di render conto di quel che ogni grande scrittore continua a dire anche a chi lo legge a distanza di anni. Non mi è stato difficile evitare di ‘specchiarmi’ in un personaggio per tanti aspetti così lontano da me. Pur assumendomi la responsabilità della mia anacronia, ho solo cercato di raccogliere quel che Truman Capote ha seminato”, spiega Massimo Sgorbani.
“Questo è quel che mi ‘ha raccontato’, con la straordinaria leggerezza di chi chiacchiera sorseggiando un Vodka Martini. Il lato oscuro di un’America che altri, prima, insieme e dopo di lui, hanno esplorato. La paura dello sconosciuto che minaccia la tua famiglia e la tua proprietà. La paura (e insieme l’attrazione) che suscita il diverso, ma anche la paura che lo stesso diverso prova sentendosi tale e tentando di essere accettato, salvo scoprirsi in extremis tollerato (come diceva Pasolini) solo ipocritamente, e riappropriandosi dell’unica identità che, a ben vedere, gli è stata realmente concessa: quella di intruso, di presenza minacciosa. Tante armi da fuoco: Colt, Winchester, bazooka, bombe, napalm, pistole fumanti o pistole letterarie come quelle dichiarate dallo stesso Capote a proposito del suo Preghiere esaudite («Il libro è diviso in quattro parti e, in effetti, ha proprio la struttura di una pistola. C’è l’impugnatura, il grilletto, la canna e, alla fine, il proiettile»)“.
Si dice che “quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta. E questa frusta è intesa unicamente per l’autoflagellazione“. Se per Capote il talento autorale è stato una forma di feticismo, quasi una perversione edonistica, dopo l’infanzia difficile e l’aggravante per il suo tempo dell’omosessualità, lo scrittore è diventato il simbolo delle feste lustrini e paillettes tipiche della società dell’epoca, un cronista puntuale del mondo newyorkese venuto dai bassifondi, dove lavorava come fattorino, emerso nell’upper class americana. Un talento che si è spento a causa dell’abuso di alcol e droga, rimpianto dai posteri e che sul palcoscenico del teatro di via Giulia rivive con un’interpretazione intensa volta a riconsegnare idealmente al pubblico il mito. Per parlare d’amore, sì, ma anche di emozioni che appartengono, trentacinque anni dopo la morte avvenuta a Bel Air nel 1984 per cirrosi epatica, alla sua inconfondibile cifra stilistica e letteraria.