Nella suggestiva cornice dei chiostri bramanteschi della Chiesa di Santa Maria alla Fontana, scrigno artistico poco conosciuto (e meriterebbe certamente di una maggiore attenzione, sia da parte dei milanesi che dai turisti) dove ha sede anche il Teatro Fontana di Milano, mentre il pubblico prende posto, Federica Rosellini controlla il volume del suono alla consolle, sposta un cavo a terra, vicino al violino e al violoncello elettrico collegato ad un amplificatore. Circondata da sei tubi led spenti (si accenderanno in seguito di colori cangianti, blu, verde, rosso, aranciato, azzurro, violetto, evocando le vetrate colorate delle chiese gotiche) capelli raccolti a coda, senza trucco, indossa un paio di jeans scampanati e una camicetta nera trasparente sexy in tulle. Concentrata e pensosa e l’enigma inesauribile di quel suo sguardo perturbante (ci ricorda l’iconica attrice francese Dominique Sanda resa celebre da Bertolucci e De Sica, ma lei si schermisce: “in verità , io sono molto miope e non uso le lenti ” ). Sempre pronta a forme inedite di narrazione, e alla contaminazione tra le arti e associazioni imprevedibili di mondi, la talentuosa attrice, nata a Treviso il 23 dicembre 1989, Premio Hystrio alla vocazione 2011, per due volte premio UBU come miglior attrice/performer under 35, ha proposto “un reading performativo ed elettronico ” sul Giudizio Universale dello Scivias (di cui ne firma anche una nuova traduzione), un opera composta da Hildegard von Bingen, monaca benedettina e mistica, in cui racconta le visioni divine che la abitano fin dai primi anni della sua infanzia e che le toccano “il cuore e l’anima come una fiamma”. Una delle figure più sorprendenti del Medioevo, donna dai numerosi talenti: guaritrice, erborista, naturalista, cosmologa, gemmologa, filosofa, musicista, poetessa.
“Grida, dunque, e scrivi così” , queste le parole della “voce che viene dal Cielo”. Concentrata sguardo fisso al leggio con la punta del piede leggermente alzata sul pedale dell’amplificatore, pronta a schiacciare, attenta nel dare peso ai gesti e alla parole che disegnano la testa di un’aquila, una figura luminosa che calpesta con i piedi un mostro dall’aspetto abominevole di colore nero, sovrastato da un serpente., e Dio si rivela in una visione di luce, Federica Rosellini dà inizio al monologo ritmato da musiche composte da Hildegard e da lei stessa . E incanta il pubblico. L’abbiamo incontrata dopo lo spettacolo, disponibile per una veloce chiacchierata.
Perché Hildegard?
Ne sono affascinata da tempo. Per il suo eclettismo legato alla musica, alla scrittura, all’immagine, al suo modo visionario di raccontare la Creazione del mondo. Una donna che nei primi del 1100, si interessò al cosmo, ai saperi d’oriente, fu erborista, guaritrice con la pratica delle cure naturali e della fitoterapia, la prima “sessuologa” della storia.
Una figura quanto mai moderna
In Hildegard è viva la coscienza di essere donna, “l’ultima e la più perfetta delle creature perché nata dalla carne già umana, e non dalla terra come il suo compagno Adamo”, e ha chiara consapevolezza del proprio valore. Amo la storia delle donne che non ci hanno raccontato. Amo cercare nei personaggi che porto sulla scena la complessità dell’essere. Hildegard cominciò ad avere apparizioni fin da bambina; le temeva, e non ne fece parola con nessuno, in quanto le visioni erano sospette allora come ora perché chissà se vengono da Dio o dal demonio. Per lungo tempo impara a tenerle segrete, finché , una “luce piena di fuoco” tornerà a ripeterle: “Tu devi dire e scrivere ciò che vedi e odi”. E trascrive anche le musiche celesti che accompagnano le visioni. Quando ormai è grande, già vecchia per l’epoca, la Viva Luce le ordina di predicare, attività assolutamente eccezionale per una donna. E lei parte: Colonia, Treviri, Liegi. Würzburg. E poi c’è il rapporto con il sacro. Sia che sia visibile o invisibile, abbiamo sempre a che fare con il sacro in relazione a un senso panico dell’esistenza, non solo cristiano. Mi piace soffermarmi sulla convivenza tra invisibile e visibile dando a ciò che non vediamo forme sorprendenti.
Hildegard rientra a pieno titolo nella costellazione delle visionarie, donne “folli” audaci, profetiche ed eretiche, ribelli, non solo perché hanna incarnato una visione del femminile in anticipo sui tempi, ma capaci di cogliere l’essenza fantasmatica del reale
Mi piace immaginarla, Hildegard, a scambiarsi visioni folli e meravigliose con un’altra artista visionaria, dall’eccentricità indomabile, Leonora Carrington, pittrice scomparsa nel 2011 all’età di 94 anni, bellissima, una delle muse inquietanti del surrealismo, dal quale però non smise mai di tenersi a debita distanza, anche negli anni in cui nascerà un amour fou con Max Ernst (“non avevo tempo di essere la musa di nessuno Ero troppo occupata a ribellarmi alla mia famiglia e imparare a essere artista”). Perpetua viaggiatrice attraverso altri mondi e dimensioni, alla ricerca permanente della conoscenza di sé. Gioca molto a fare la veggente: penso alle sue creature fantastiche, figure femminili talvolta ibridate con animali, un universo magico dove irrompe il sogno, l’irrazionale, l’inconscio , e con cui ha reinventato con la sua immaginazione la realtà,, tra l’assurdo, l’insolito, il fantastico e il terribile. L’incantesimo del mondo. Lo strumento di sovvertimento primario diviene il corpo, ri-immaginato, ibridato e deformato. A chi le chiedeva quando era nata, Carrington rispondeva che era stata costruita dall’incontro tra sua madre e una macchina, in una bizzarra comunione di umano, animale e meccanico , puntuale anticipatrice di un’immagine non binaria. Negli anni messicani, si dedico allo studio dell’alchimia, dell’esoterismo, dei tarocchi, degli archetipi junghiani.
Anche il tuo è un percorso artistico molto variegato, dalla musica, alla danza, teatro e cinema. Attrice ma anche regista, scrittrice.
In principio c’è stata la musica: nonna violinista e nonno compositore e direttore d’orchestra, la nonna violinista. Io stessa ho fatto il Conservatorio. Ho iniziato a suonare il violino e a cantare a sei anni. Per me la musica è una delle parti dell’anima. In più sono convinta che più discipline si conoscono, più mondi si attraversano. Ho imparato a suonare nuovi strumenti, come il violoncello elettronico che suono in questo monologo. E noi attori siamo uno strumento. Sia come anima che come corpo. Provengo anche da una formazione di danzatrice , ho frequentato persino un master di perfezionamento al Teatro Carlo Felice di Genova, oltre all’accademia del Piccolo di Milano. Sono convinta che ogni disciplina artistica dialoghi con le altre.
Hai incarnato anche un personaggio maschile come Amleto nell’Hamlet di Antonio Latella
Amo avere una carriera parallela d’attore e d’attrice . Sono la persona e la donna che sono, ho un rapporto interessante con entrambe le nature. Non mi sono posta come attrice la questione di dover performare un maschio; ma di come molte parole e azioni stessero sul mio corpo e sulla mia bocca. E penso che sia arrivato il momento di poter attraversare ruoli che sono sempre stati maschili, portando una luce diversa, mischiando le nature perché viviamo finalmente in un mondo dove il binarismo sta esplodendo: maschile-femminile, eterosessuale-omosessuale, animale-umano, organico-inorganico. Binari che hanno prodotto violenza e sofferenza.
Hai sempre preferito il teatro al cinema. Quest’anno ti abbiamo visto nel film Confidenza di Daniele Luchetti con Elio Germano e adesso sei nelle sale protagonista al fianco di Alessandro Borghi e Gabriel Montesi nell”ultimo film di Gianni Amelio, Campo di battaglia, e In autunno invece sarà in tv in una puntata della serie televisiva Rai Non uccidere 2.
Il teatro è sempre stato la luce, un luogo sicuro, sciamanico dove scavare nell’anima, cercarmi e conoscermi. Pensavo che il cinema non mi interessasse. Poi ho iniziato a fare provini: ci ho preso gusto.
Prossimi impegni?
Il 15 e 16 ottobre ottobre, sarò al Teatro Olimpico di Vicenza , nell’ Elettra di Hofmannsthal per la regia di Serena Sinigaglia. Un’Elettra selvatica, un creatura piena di odio ma che è anche un animale ferito, attraversata dai fantasmi e dallo spettro del padre, con un corpo rimasto alle ossa. Diversa dalla tradizione tragica. L’ambientazione della scene e dei costumi nella Vienna del primo Novecento riport a l’immaginario di Schiele e Kokoschka ma, di quei corpi scarni, smangiati, deformati , contorti risucchiati nelle loro passioni, nei loro drammi, nei traumi e che proromperanno nella violenza della prima Guerra mondiale. Dall’11 al 22 dicembre riprenderò al Piccolo Teatro Grassi Anatomia di un suicidio (vincitore di cinque Premi Ubu – Migliore spettacolo 2023, ndr) , della trentasettenne britannica Alice Birch,con la regia di Livia Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni. E’ sempre emozionante tornare in questo teatro, perché come dicevo mi sono diplomata proprio alla Scuola del Piccolo Teatro diretta da Luca Ronconi e con lui ho debuttato (a 19 anni) nei Beati anni del castigo di Fleur Jaeggy. Poi mi aspetta una Giovanna d’Arco, per la regia di Paolo Costantini, che prosegue il suo percorso di ricerca sulla radicalità di figure femminili rivoluzionarie, iniziato con Santa Caterina da Siena.