Percorrendo la strada che da Chelsea, quartiere ormai storico delle gallerie di Manhattan a partire dal 2000 nonostante lo spostamento di alcune sedi e l’apertura di nuove nel Lower East Side, va a Brooklyn resti colpito dal traffico metropolitano in qualsiasi ora del giorno fino a tarda sera. Ennesimo segnale che New York è una città che non dorme mai: la sua energia è travolgente e ti contagia. Non patisci jet lag e sei disposto a riempirti di impegni per non perdere neppure un minuto, tanto sai benissimo che al ritorno dovrai riadattarti, a malincuore, ai ritmi lenti e rilassati cui sei abituato del tuo Paese che resta bello ma ti appare davvero troppo piccolo.
Rispetto all’ultima visita nella Grande Mela ti accorgi che il processo iniziato qualche anno fa è ulteriormente cresciuto: lo spostamento degli artisti da Manhattan a Brooklyn. Ormai tutti hanno lo studio in quella che numericamente è la quarta città d’America senza neppure essere un città. Interi quartieri di zone un tempo off limits si sono trasformati nelle zone più cool di New York tra locali alla moda, negozi di tendenza, officine che customizzano motociclette. A conferma di ciò che affermava una decina d’anni fa il sociologo Richard Florida sono intellettuali e creativi gli unici a poter bonificare una città, un quartiere, una zona, poiché la presenza qualitativa oggi ha sempre più significato di una migrazione incontrollata e generica. E’ grazie ad artisti, designer, musicisti e altri componenti di quella che Florida definì a suo tempo come “la nuova classe creativa” che Brooklyn è diventato uno dei posti più interessanti dell’arte mondiale e anzi è necessario frequentarla per capire verso quali direzioni si sta evolvendo la ricerca contemporanea.
Arriviamo dunque a Navy Yard, gigantesco cantiere navale costruito a partire dal 1801, che conteneva al suo interno diversi edifici tra cui un ospedale, dismesso nel 1966 e più tardi adibito a usi commerciali. Oggi ci lavorano oltre duecento imprese, tra cui gli Steiner Studios uno dei più grandi studi di produzione cinematografica off Los Angeles, e più di cinquemila persone. Molti artisti hanno affittato degli spazi per stabilirvi il proprio atelier in un crossover immaginifico e globale dove non si parla soltanto l’inglese ma una gran quantità di lingue.
Santi Moix ci accoglie, me, Emanuela, Giuseppe e Nick, il direttore della Paul Kasmin Gallery, col solito sorriso aperto e con un largo abbraccio. Gli americani sono un popolo friendly e disponibile, lui è europeo, mediterraneo e catalano, e la stretta vigorosa e calorosa segna un punto in più, invita immediatamente alla confidenza, alla complicità.
Negli ultimi mesi ha lavorato incessantemente alla produzione di questa mostra, sua prima personale in Italia, cui tiene moltissimo, ed è curioso che per un artista di stanza a New York, il centro del mondo, sia comunque significativo compiere esperienze all’estero. E l’Italia ha ancora il suo appeal. Confessa di aver saltato quasi per intero le vacanze estive e di aver tenuto un ritmo da catena di montaggio. Si alza prestissimo, prende la bici e va in studio dove rimane fino a sera. Quando è a corto di idee –può capitare sia davanti a una tela che di fronte allo schermo del computer – afferra la pelota basca e si mette a palleggiare contro il muro, sperando che gli torni.