La polemica sull’esposizione al Maxxi di un’opera dei fratelli Chapman, dal sapore pedopornografico (una bambina a cavalcioni di un’altra bimba, dalla cui bocca esce un pene), ci spinge a qualche sommessa riflessione, in generale, sullo stato dell’arte in Italia e, in particolare, sulla funzione del nostro museo di Stato.
Gli artisti del più spinto concettuale lavorano quasi sempre sulla dissacrazione pensando fin da principio alla comunicazione che può derivare dal loro intervento. Gli ambiti prediletti sono la religione, il sesso, i liquori corporali (cacca, sangue, sudore…), dove esibire il più retrivo cinismo mascherato da avanguardismo anche quando le opere, passando gli anni, non sono più di rottura, semmai deja vu, barzellette di cui si conosce il finale e che quindi non fanno più ridere.
Prendiamo, per esempio, la celebrata “Tragic anatomies” di Jake e Dinos Chapman del 1996 (della medesima serie di quella esposta al Maxxi), un’installazione dove si possono “ammirare” una serie di manichini di bambini, inquietanti nelle loro posizioni innaturali e allusive (fellatio e sodomie) che dovrebbe avere indagare la violenza sui minori e invece scade in una tragica rappresentazione che, dopo due decenni, neppure sciocca più lo spettatore, senza peraltro aggiungere nulla al tema in questione.
La cosa più ridicola del Museo d’Arte del XXI secolo è, da un lato, il ritardo con cui si presentano queste pseudo-opere credendo di essere up to date, dall’altro le risibili giustificazioni curatoriali, infine la sudditanza agli schemi dell’art system, un ristretto circolo di benpensanti modaioli che inneggiano alla presunta “liberta dell’artista” per azzerare qualsiasi valore. Il fine di un museo di Stato sarebbe invece quello di progettare senso e bellezza per il futuro di una civiltà, cosa che la Melandri non sembra condividere.