di Davide Brullo
Di solito gli scrittori fanno a gara per mostrare il profilo migliore. Non aspettano altro che firmare autografi e vomitare interviste. Invece di Vincenzo Gambardella (abita a Milano, ma il nome traluce le origini napoletane) trovate on line appena una striminzita fototessera, non ha i siti astronomici degli scrittori che tirano, come Paolo Giordano e Alessandro D’Avenia. E quando mi telefona a mala pena dice, «se non le è di disturbo vorrei inviarle il mio nuovo romanzo».
In realtà Gambardella lo conosco dal 2006. L’editore Marietti aveva pubblicato il suo primo romanzo, “Seduto sulla tempesta”. Me lo indicò con sfoggio di aggettivi, Daniele Piccini, che di professione fa il superprof di letteratura italiana (tra i suoi ultimi lavori, per intenderci, la cura del “Ninfale fiesolano” del Boccaccio per Rizzoli). All’epoca ero troppo superbo per capire la grandezza di Gambardella. Due anni dopo, ancora per Marietti, Gambardella, uno che dice che «quando scrivo sento d’incontrare qualcosa, forse una pietà infinita», manda in libreria “Il cappotto istriano”. Troppo occupati in cose ben più importanti, imboccati da ben altri editori-transatlantico, i baroni delle “Terze” ignorano il libro. Fatta eccezione per Luca Doninelli, che avvicina la scrittura di Gambardella «a quella di altri grandi solitari della nostra letteratura: penso a Silvio D’Arzo, Arturo Loria, Antonio Delfini».
Quest’anno il solitario Vincenzo se ne esce con un romanzo ancora più estremo, “Vinicio Sparafuoco detto Toccacielo”, pubblicato da un editore artigiano che sta in una stanza a Pollena, nel napoletano, Ad Est dell’Equatore (pp.188, euro 12). La storia è quella di un gruppo di fuochisti, equilibristi dei fuochi d’artificio, e delle loro picaresche avventure. Uno di questi, per dire, don Blandino, si è inventato «nu pupazzo meccanico che rappresenta Gesù sulla croce che spara fuochi, e quando si distrugge risorge». La lingua di Gambardella è altrettanto infuocata, un mix indemoniato tra i fratelli Grimm e Carlo Emilio Gadda. La pagine più bella è quella in cui «Vinicio scrive ‘na lettera ispirata e addolorata a papa Wojtyla, e dentro ci mette una domanda». La domanda è questa: «sono ansioso di chiedere come si fa ad amare ‘na persona per sempre, per tanti anni, come è capitato a me, e averla vista sì e no ‘na vota». Silenzio liturgico. Il libro mi ricorda, per atmosfere, il racconto “Vita di un falsario”, di Inoue Yasushi, dedicato all’ineffabile pittore fuochista Hosen. Pubblicato a suo tempo dal Melangolo, quel libro è editorialmente defunto. Dei grandi libri, rassegnatevi, non importa più a nessuno.