Elogio delle frontiere

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Forse peggio delle tragedie legate all’immigrazione c’ è solo l’ideologia indiscriminata pro-immigrazione. La “cultura dell’accoglienza” diventa troppo spesso bugiardino per scaricarsi la coscienza, formazione di compromesso di un Occidente stanco e stufo di sé, che finisce per delegare in bianco la propria identità. I fatti: solo nei primi quattro mesi del 2014, sono stati registrati 26.310 arrivi di migranti in Italia. Un aumento dell’823% rispetto allo stesso periodo del 2013. La prospettiva è in crescita. A breve e a lungo termine.

L’emergenza come si vede c’è, è grossa, e si articola su vari livelli. Nell’immediato c’è la tragedia di navi e barconi che affondano nel Canale di Sicilia, dei corpi recuperati (e miseramente dispersi) in mare, di intere famiglie in fuga disperata da regimi sempre più invivibili. A questa situazione l’Unione Europea reagisce politicamente in modo singolare: non fa niente. Niet. Nada. Nothing. L’Italia ha appena stanziato 370 milioni di euro per il 2014, mentre l’Europa, al di là dei generici appelli del commissario Cecilia Malmstrom affinché tutti i paesi dell’area Ue si facciano carico del problema, tace.

Ma non manca solo una strategia di pronto intervento, o più ampio respiro politico, per far fronte alla situazione. Fato forse più grave: manca una posizione culturale sul fenomeno. Accogliere? Non accogliere? Quanto accogliere? E soprattutto: come integrare chi arriva? Da questo punto di vista, specialmente in Italia, chiunque metta in dubbio la cosiddetta “cultura dell’accoglienza” viene trattato da delinquente politico, da xenofobo, anche un po’ idrofobo. Mentre, ad esempio, in Francia la discussione su identità culturale e immigrazione, tra polemiche anche dure (ma il tutto rientra nella dialettica della questione), bene o male procede. Basti nominare, “L’identité malheureuse” (“L’identità triste”) l’ultimo libro di del filosofo Alain Finkielkraut, in cui si punta il dito contro le politiche di integrazione indiscriminata che stanno riducendo la cultura francese a un fenomeno residuale.

Ma forse il libro più bello sull’argomento l’ha scritto il filosofo Regis Debray, uno studioso di sinistra tutt’altro che conformista. Anzi. Il suo “Elogio delle frontiere” (Add editore, Euro 12) già dal titolo la dice molto lunga. Secondo Debray chi predica l’assenza di frontiere in realtà sta ripetendo un vecchio inno comunista duro e puro: “L’Internazionale / Sarà il genere umano”. E invece le frontiere, racconta Debray, sono lo “strato isolante” che permette a qualsiasi organismo sociale di vivere, sono un elemento “politicamente scorretto, moralmente antipatico, ma inevitabile per sfuggire al puro caso”. Debray cita anche lo studioso spagnolo Daniel Innerarity, che in “La transformación de la polìtica” scrive: “Quando lo spazio è senza limiti e si unifica al punto tale da non avere più alcuna frontiera, allora tutto il mondo diventa un’area irritabile”. Una descrizione perfetta del momento storico e geopolitico attuale. La soluzione? “È il momento di invocare il dio Termine” scrive Debray “di ripristinare i cippi di confine e tornare a segnare l’asfalto con strisce gialle”.

Insomma, a quanto pare le frontiere servono. Anche per accogliere se è il caso, ma senza farsi bruciare dall’ossessione di una cultura genericamente “aperta” che però, per gli immigrati stessi, fa esattamente nulla, niet, nada, nothing.