La “Volgar lingua” di Lorenzo Muccioli

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Ripetizioni di italiano per romanzieri di successo

di Davide Brullo

Gli hanno consegnato il diploma che aveva già scritto il primo romanzo. S’intitolava “La Scuola di Atene”. «Ora lo ripudio» mi dice Lorenzo Muccioli, come se fosse un Thomas Pynchon qualsiasi, che, tra l’altro, «è l’autore che idolatro. Forse». Ma avrebbe voluto nascere nel corpo unto di vecchiaia di Jorge Luis Borges, ma ama alla follia «Giovannino Guareschi. Perché è stato il primo in cui mi sono imbattuto», ma nell’isola deserta si porterebbe «Le Metamorfosi di Ovidio».

Un nerd? Un romagnolo di costa. Nato a Cattolica, 24 anni da poco compiuti, una tesi all’Università di Bologna su “Esempi di etica cristiana nell’opera di Ignazio Silone” e un muso che è uguale a quello di Wayne Rooney. «Ma vaffancu…». Da anni infiltrato nella stampa locale, dove si lavora come i cinesi (dalle 11 alle 23 per 500 euro al mese, anche la domenica), e che scrive, spudoratamente, «per fare della scrittura un mestiere con cui guadagnarmi il pane, un’attività a scopo di lucro».

Ce la farai? «Ti racconto un episodio. Un giorno incontro il direttore editoriale di una casa editrice abbastanza importante e gli domando se posso sottoporgli il mio romanzo. Lui mi guarda dall’alto in basso e mi risponde che prima di sottoporre qualsiasi cosa avrei fatto meglio a terminare gli studi, trovare un lavoro e ritagliarmi una posizione sociale che mi consentisse, testuali parole, di esercitare la professione di scrittore. Come a dire: non è importante quello che hai scritto finché sei il primo povero cristo che passa. Per fare gli scrittori, in Italia, oggi, non conta la qualità della tua opera, ma lo scranno, la cattedra, l’ufficio che puoi vantare».

Il romanzo a cui accenna Lorenzo si chiama “Prose della volgar lingua”, lo ha pubblicato, quest’anno, Cicorivolta, e fa un mazzo così, linguisticamente parlando, a Isabella Santacroce e Aldo Nove, Tiziano Scarpa e Antonio Scurati. Ma, appunto, nessuno ne parla perché Muccioli è un nessuno. Peccato. Perché nel suo romanzo Muccioli, kabbalista svampito, mescola “Il posto delle fragole” a Massimo Boldi, Harry Potter a Cormac McCarthy, dà il verbo al supercolto Matrona che discetta sulla «moda di scrivere i romanzi per i gggiovani», e giudica Alessandro D’Avenia «un ricettacolo di luoghi comuni a strafottere».

Esito: «Se dovessero fare un film su di noi, dio caio, sarebbe una sola inquadratura di due ore e mezza di noi che stiamo attorno lì al tavolo con il rotolo delle cartine e a guardare il logo della marca del lettore Dvd che gira da una parte all’altra dello schermo», dice Moffomalpelo, e dice tutto, altro che Nietzsche, Jünger o i sociologi Jugendstil che dall’attico dei grandi editori sfornano romanzi che dovrebbero discettare di giovinezza che si fugge tuttavia. Pigliate ripetizioni da Muccioli, è meglio.

08.06.2014