La band romana che suona bidoni, tubi, secchi, padelle.
di Michel Dessì
What’s in the cube? Cosa c’è nel cubo? Non puoi saperlo se non ascolti prima i Bamboo. Il giovane gruppo romano continuamente alla ricerca del suono. I loro concerti? Un concentrato di energia allo stato puro. Ascolti e ti rigeneri. È come attaccare alla presa di corrente il tuo smartphone scarico. Bastano i tre quarti d’ora, il tempo del concerto, per ricaricarlo al cento percento. Così ti senti dopo averli incontrati, conosciuti, ascoltati, spiati. E ti sei divertito pure! Perché ti obbligano a diventare complice!
Eh sì, il pubblico è complice. E interviene. Battendo sui tavoli, le seggiole, usando le mani o le posate della birreria. Tenendo il ritmo col piede. O schioccando la lingua… Accidenti, se ti coinvolgono! Il genere musicale? Ah! Saperlo descrivere! E perché, poi, farlo? Non ha senso. Basta il risultato. Sulla carta risulta essere “Sperimentazione, body percussion, industrial” Ma chi se ne frega. Ti scateni con loro: questo è l’importante. Qualsiasi oggetto di uso comune nelle loro mani diventa uno strumento. Che il suono sia dolce e melodioso o forte e stridulo, poco cambia. Bidoni, pattumiere, aspirapolvere, spazzolini elettrici, frullatori, segnali stradali, asciugacapelli, catene, tubi, secchi, padelle. Altro che negozio di strumenti musicali: basta una discarica! Cinque bravi musicisti chiamati a raccolta da Luca Lobefaro nel 2008. Promotore della band che oggi gira per l’Italia.
“Sono forti” è il commento degli spettatori. Dal 2008 al 2013 hanno sperimentato, provato, suonato. Poi, il primo lavoro discografico. Non un disco. Un dvd. Perché non puoi solo ascoltarli, devi obbligatoriamente vederli. Devi osservarli, scrutarli, per capire che al posto di un basso elettrico a emettere il suono c’è un righello, al posto della grancassa un bidone, al posto dell’hi-hat un segnale stradale. Questa è la forza dei Bamboo: Claudio Gatta, Davide Sollazzi, Luca Lobefaro, Valentina Pratesi, Massimo Colagiovanni. La band romana che, per registrare i primi sette pezzi, si è rinchiusa in un casolare di campagna nel Lazio. In una stanza quadrata che ha fatto da sala di registrazione. Da lì, il nome del primo lavoro discografico “What’s in the cube?”. Nel cubo c’è la loro musica, il loro lavoro, la loro anima. Per scoprirlo ancora più a fondo, è obbligatorio entrare nel cubo. E diventarlo. In tournée.