Beatrice Gigli ci conduce, con le sue Beatitudini, in un viaggio alla scoperta di storie e luoghi nascosti, tanto misteriosi quanto affascinanti. Ogni racconto è un viaggio verso l’inaspettato, dove la bellezza segreta di realtà spesso dimenticate si svela a chi le sa cercare. Vere beatitudini per chi le esplora, questi frammenti di storia e cultura aprono una finestra su mondi ricchi di meraviglia e significato.
In una fredda mattina a Parigi, mi sono recata al Museo di Cluny, non lontano dalla Sorbonne. Conosco bene questo luogo, ma quella volta ho scelto di visitarlo per ripararmi dalla pioggia. Non avrei mai immaginato di trovarmi di fronte a una sorpresa così straordinaria: un imponente corno di unicorno, esposto solo per un periodo limitato. Questo prezioso oggetto proveniva dal tesoro di un’antica abbazia benedettina situata da qualche parte in Francia. Sebbene il museo sia noto per gli arazzi della dama con l’unicorno, trovarmi davanti a quell’oggetto, prova tangibile dell’esistenza di un essere così straordinario, mi ha spiazzato.
Ma allora, l’unicorno è esistito davvero? È possibile che questa creatura, che insieme al drago alato o alla Chimera stimola la nostra immaginazione, sia effettivamente vissuta in un’epoca remota?
L’unicorno è una creatura che ha catturato l’immaginazione umana come poche altre. Descritto come un cavallo bianco con un lungo corno centrale, talvolta con ali (come un pegaso), o con coda da leone e zoccoli bipartiti, ha affascinato scrittori e viaggiatori sin dai tempi antichi. Senza un vocabolario morfologico comune, queste figure straordinarie venivano spesso paragonate ad animali già noti: la giraffa, ad esempio, era chiamata “cameleopardo” per la sua struttura simile a quella del cammello e la colorazione simile a quella del leopardo. È probabile che anche l’unicorno sia nato da descrizioni vaghe e incomprensibili degli appunti di viaggio.
L’unicorno appare in testi antichi come gli Indikà di Ctesia e il Physiologus, composto ad Alessandria tra il II e IV secolo, successivamente tradotto in latino. Plinio il Vecchio lo menziona nella sua Naturalis Historia e nelle Sacre Scritture, dove è descritto come un magnifico animale dotato di corna e chiamato “re ‘èm” (animale potente dotato di corna). Nell’iconografia cristiana medievale e rinascimentale, l’unicorno simboleggiava la purezza e l’incarnazione del Verbo, e il suo temperamento selvaggio poteva essere placato solo da una vergine. Basti pensare ai dipinti di Domenichino e Raffaello, fino agli straordinari arazzi della dama con l’unicorno esposti al Musée de Cluny.
Nel contesto degli arazzi esposti al Museo di Cluny, uno dei più significativi è certamente quello che rappresenta il martirio di Santo Stefano. Questo arazzo illustra il momento della lapidazione del primo martire della cristianità, il protomartire. In modo straordinario, giungono sul luogo della sua morte animali provenienti da tutto il mondo, tra cui un unicorno che sta in una posizione privilegiata ai piedi del Santo, simboleggia la purezza, ma anche la meraviglia.
Marco Polo stesso sosteneva di aver visto un unicorno a Giava. La convinzione della sua esistenza era alimentata dalla circolazione del suo corno d’avorio lungo e a spirale, noto per una proprietà molto particolare: quella di neutralizzare i veleni. Ctesia, nel suo Indikà, descrive come i governanti dell’epoca usassero questo corno per fabbricare coppe in grado di rendere innocue le sostanze velenose.
Le corti europee del Medioevo ambivano a possedere corni di unicorno, e nell’inventario del tesoro papale di Bonifacio VIII del 1295 si fa menzione di quattro corni, utilizzati per assaporare ogni cibo presentato al papa. Anche l’abbazia di Saint-Denis, necropoli reale dei re di Francia, utilizzava i corni nelle funzioni liturgiche, a partire dal 1495.
A Ferrara, la leggenda narra che la contrada di Santa Maria in Vado facesse immergere un unicorno per purificare le acque del Po, motivo per cui l’effige dell’unicorno è presente nel Palio di Ferrara.
Così, presso le cabinet des curiosités dell’Europa medievale e rinascimentale, il corno d’unicorno era esposto accanto ad altre meraviglie naturali.
Elisabetta I d’Inghilterra possedeva un corno di unicorno nella sua camera delle meraviglie, donatole nel 1577 dall’esploratore Martin Frobisher al ritorno dal Labrador. Questi corni, lunghi e a spirale, venivano pagati a peso d’oro dal XV secolo fino all’inizio del XIX secolo.
Nel 1638, con gli studi dello zoologo Ole Worm, emerge un altro curioso animale: il maschio del narvalo, un cetaceo artico con un lungo corno a spirale chiamato “dente di narvalo”. Nel 1650, il medico inglese Swan documenta come il dente di narvalo potesse rivelare i veleni, mentre l’unicorno, benché affascinante, non avesse prove reali della sua esistenza.
Solo a metà del XIX secolo l’unicorno fu definitivamente escluso dalla lista degli animali esistenti e relegato al mondo delle leggende. Tuttavia, nel 1957, Jorge Luis Borges lo citò nel Manuale di zoologia fantastica, pubblicato nel 1969 come Il libro degli esseri immaginari, mantenendo viva la sua aura di mistero e meraviglia.
L’unicorno, con la sua presenza enigmatica e il suo corno avvolto di mistero, continua a solleticare la nostra immaginazione, spingendoci a chiederci se, dietro il velo delle leggende, ci possa essere un frammento di verità. Sebbene la scienza abbia dimostrato che il corno d’unicorno non è altro che un dente di narvalo e l’animale stesso non sia mai esistito al di fuori della fantasia, il fascino di questo essere mitico rimane intatto.
Oggi, l’unicorno è simbolo di un’era in cui il confine tra realtà e fantasia era permeabile e malleabile. Esplorando il passato e il mito, non possiamo fare a meno di meravigliarci di come un’unica figura possa attraversare secoli e culture, continuando a ispirare storie e sogni. L’unicorno, dunque, non è solo un residuo di miti passati, ma un eterno simbolo di ciò che ci spinge a credere nell’impossibile e a cercare la meraviglia oltre il noto.