Francesco Murano: la luce dell’arte!

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Francesco Murano è uno dei più noti e apprezzati Light Designer italiani, cioè viene chiamato per illuminare i luoghi che accolgono l’arte e non solo. Suo è l’allestimento luminoso della mostra: Van Gogh, capolavori dal Kröller Müller Museum presente fino al prossimo 26 marzo a Palazzo Bonaparte di Roma.

La prima domanda sorge spontanea: come si diventa designer della luce?

Ho iniziato da adolescente con la passione per la fotografia: fotografavo di tutto e passavo le notti a stampare il materiale. Successivamente mi sono laureato in architettura ma il mio percorso si è subito delineato come percorso della luce. Alla Domus Academy di Milano ho seguito un master sul design primario ossia il design degli immateriali: il suono, gli odori. Grazie a questa disciplina molto interessante non si progettano oggetti, quindi, bensì sensazioni. Se ho iniziato a lavorare con l’illuminazione però lo devo a Clino Trini Castelli, il mio guru, il quale mi ha insegnato soprattutto che della luce è importante la qualità e non la quantità. Tuttavia ci tengo a precisare che pur insegnando nei miei master Light Design io non ho mai studiato questa materia e nel campo sono un autodidatta che si è formato grazie all’incontro con Clino. Il mio pertanto è stato un percorso piuttosto particolare.

La funzione della luce in un allestimento qual è?

L’ultima funzione è proprio quella di illuminare. Sembra assurdo ma è davvero così. Attraverso la vista l’occhio può ridurre la percezione della luce infatti, tramite la pupilla si riesce a regolare il flusso di luce ciò che non accade per ciò che riguarda il suono che non può essere in alcun modo attutito. Lo ribadisco ciò che conta in una illuminazione è la qualità della luce non la quantità. L’illuminazione crea atmosfera. Canova girava per le sue statue con la candela in mano per cercare la luce che esaltasse le sue opere.

Come si possono conciliare l’aspetto scientifico dell’illuminazione con quello umanistico dell’arte?

Non si può in effetti perché la scissione in realtà esiste e io stesso la vedo ma è come se i due aspetti fossero integrati l’uno con l’altro. In fondo Leonardo Da Vinci, Michelangelo, Raffaello, oltre ad essere artisti erano anche scienziati perché non dipingevano solamente ma progettavano architetture e tecniche. Addirittura nel mondo della pittura la ricerca scientifica è spesso stata alla base delle opere più famose vedi nell’Impressionismo dove la ricerca degli effetti della luce è sempre stata predominante. Monet stesso diceva che il suo scopo non era rappresentare gli oggetti bensì la luce e l’atmosfera dei luoghi e delle situazioni.

Cosa distingue un semplice light designer da una star del settore come te?

Direi per prima cosa la mia età e quindi l’esperienza. Io ho illuminato più di duecento mostre e chiaramente ogni volta invento o scopro qualcosa di nuovo. Anche la conoscenza approfondita delle opere gioca a mio favore e naturalmente l’amore per l’arte visto che sono un collezionista. Ogni volta che illumino una mostra entro in relazione con l’artista del momento anche perché lo stesso spettatore, quando va a visitare una mostra, è interessato ad avere una relazione con l’artista altrimenti si limiterebbe a contemplarne le opere sul catalogo. In sostanza il mio compito, e ciò che evidentemente mi riesce bene, è quello di riuscire a mettere in contatto lo spettatore con l’artista cercando anche di interpretare il desiderio di Leonardo o di Canova su come volevano che le loro opere venissero mostrate. Ti faccio l’esempio del mio allestimento della mostra su Antonio Canova a Palazzo Braschi. Inizialmente avevo illuminato il Perseo in modo tale che l’ombra della Medusa si proiettasse sul suo corpo, una situazione molto drammatica che seppur bellissima rappresentava un errore visto che, essendo il Canova un artista neoclassico, non potevo dare al suo Perseo un’impronta angosciosa pertanto, ho cambiato la direzione della luce per rasserenare tutto il contesto e renderlo consono all’epoca in cui venivano enfatizzati armonia, nobiltà e grandezza.

Tu hai illuminato le opere di Van Gogh esposte a Palazzo Bonaparte a Roma. Quali sono le caratteristiche del tuo lavoro in questo contesto?

In questo contesto ti dico subito che ho dovuto affrontare due problemi. Il primo, di carattere tecnico visto che il museo Kröller Müller che ha prestato le opere, richiedeva un’illuminazione a 75 lux, cioè una quantità di luce che rappresenta più o meno un terzo di ciò che normalmente si usa per colpire direttamente i quadri. Questa necessità è legata alla conservazione delle opere che possono deteriorarsi e in realtà per mantenere il colore e le caratteristiche originali dovrebbero stare al chiuso: un ossimoro per qualcosa che deve essere esposto. Il secondo problema era l’approccio che si voleva dare alla mostra, un carattere intimistico, mostrando quindi il tormento di Van Gogh che lo ha accompagnato per tutti e dieci anni di carriera fino al suicidio. A differenza della mostra sugli Impressionisti che si è tenuta nella stessa location l’anno passato, dove l’attenzione era più sulle opere che sull’ambiente circostante, in questa mostra ho dovuto enfatizzare con l’illuminazione lo spazio che accoglie il visitatore. I 75 lux concessi per illuminare le opere hanno ovviamente contribuito a smorzare i toni per modellarsi sull’esistenza drammatica dell’artista.