Oltre Caravaggio, un nuovo racconto della pittura a Napoli

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"Apollo e Marsia" Luca Giordano ph.L.Romano
Il ‘600 napoletano è una “invenzione” recente. È stato riscoperto e definito meno di un secolo fa dallo storico d’arte Roberto Longhi (1890-1970). Secondo lo studioso, il naturalismo di Caravaggio sarebbe la spina dorsale dell’arte napoletana. Gli studi seicenteschi sul Sud derivano, quasi senza eccezione, dalle sue proposte formulate in una serie di saggi che sono stati pubblicati essenzialmente nel secondo decennio del secolo scorso.
Si ispira a questi concetti la mostra di opere sacre, mitologiche e nature morte “Oltre Caravaggio. Un nuovo racconto oltre la pittura a Napoli” a cura di Stefano Causa, docente dell’Arte moderna presso l’Università Suor Orsola Benincasa, e Patrizia Piscitello, responsabile dell’Ufficio mostre del Real Museo Bosco di Capodimonte, diretto da Sylvain Bellenger, in esposizione fino al 7 gennaio 2023 presso la Pinacoteca di Capodimonte.
Dalla sua inaugurazione nel 1957 fino ad ora, l’esposizione dei dipinti del ’600 napoletano è stata in gran parte il risultato di quest’analisi. Presentare la civiltà artistica napoletana, secondo i due curatori, vuol dire mettere in giusto risalto gli apporti esterni e gli scambi con gli altri centri, l’invio da fuori di opere e progetti, la residenza in città degli artisti ‘forestieri’. Napoli, infatti, era ed è una grande città portuale, crocevia della vita e della cultura italiana.
Nel XVII secolo era diventata una delle megalopoli più popolose del mondo esercitando una profonda influenza sulla cultura europea; la sua storia si presenta come una ricca stratigrafia, fatta di diverse civiltà, popoli e espressioni artistiche che hanno lasciato tracce nel patrimonio artistico e monumentale. Per secoli ha subito attacchi, invasioni e distruzioni, facendo fronte a numerose catastrofi naturali: eruzioni vulcaniche, terremoti, maremoti e pestilenze.
 
In quest’ottica si può spiegare il ruolo centrale che hanno in questa rassegna, dedicata al XVII e XVIII secolo, lombardi come Caravaggio (1571-1610), emiliani come Giovanni Lanfranco (1582-1647), Domenichino (1581-1641) e Guido Reni (1575-1642), lo spagnolo (ma napoletano d’adozione) Jusepe de Ribera (1591-1652), i francesi Simon Vouet (1590-1649) e Pierre-Jacques Volaire (1729-1799), il bergamasco Cosimo Fanzago (1591-1678), i romani Artemisia Gentileschi (1593-1653) e Gregorio Guglielmi (1714-1773), il belga François Duquesnoy (1597-1643), che aveva collaborato all’altare per il cardinale Ascanio Filomarino (1583-1666) nella chiesa dei Santi Apostoli, imponente macchina realizzata tra il 1638 e il 1647 dall’architetto Francesco Borromini (1599-1667), tra i principali esponenti del barocco romano. Gli artisti napoletani traevano ispirazione da questi apporti, rielaborando in maniera del tutto personale iconografie, tagli compositivi e utilizzo delle luci, esportando il loro linguaggio in Italia e in Europa. Un esempio tra tutti è Luca Giordano (1634-1705, nella foto l’Apollo e Marsia) che, campione della pittura barocca napoletana, viene chiamato a Venezia (1665, 1668), a Firenze (1682-83, 1685) e in Spagna (1692-1702), lasciando traccia sui pittori locali.
 
Cosa significasse per Caravaggio l’incontro con l’immensa capitale mediterranea, più classicamente antica di Roma stessa, e insieme spagnolesca e orientale, non è difficile intendere a chi abbia letto almeno qualche passo del Porta o del Basile; un’immersione entro una realtà quotidiana violenta e mimica, disperatamente popolare.