Ribelle e inquieto, ascetico e mistico: l’Ulisse di Nikos Kazantzakis

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Ribelle e inquieto, ascetico e mistico. È l’Ulisse dell’”Odissea” di Nikos Kazantzakis. Opera in cui lo scrittore padre di Zorba il greco e l’ultima tentazione di Cristo, descrive in un monumentale poema epico il ritorno e l’ultimo viaggio dell’eroe omerico. Lasciando una patria in rivolta, un figlio pavido e debole, una moglie disgustata dalla ferocia del consorte assente da tanti anni. Imbarcandosi con una ciurma più di corsari che di eroi, alla ricerca della virtù e della conoscenza. Iniziando un’avventura in cui rapirà Elena ad un vecchio Menelao, rovesciando la sterile Creta, fondando nuove dinastie, guidando rivolte, inseguendo l’immortalità verso le fonti del Nilo. Compiendo un viaggio proibito oltre le colonne di Ercole, superando i limiti umani, assetato di conoscenza e vita. In una Odissea che presenta un Ulisse nuovo e magnifico. Il “Mllle anime”, come lo descrive uno dei numerosi epiteti(oltre 100) assegnatigli, capace di coniugare Tantalo e Prometeo, Cristo e il Superuomo.

Un protagonista che rovescia imperi secolari, fonda religioni, crea città utopiche. Si fa profeta, asceta, rivoltoso, avventuriero. Che al contrario dell’eroe del poema classico, che vede il vagabondaggio come “male maggiore ai mortali”, dice che “patria è sempre stata il viaggio”. Prendendo come suo nume l’Ulisse del canto 26 dell’inferno, quello di “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Creando un’opera ricca di reminescenze dantesche, dalla simbologia del numero dei versi del poema(33.333, appunto), alla scelta di scriver nel greco demotico, utilizzando un lessico fatto di termini arcaici, popolari, trasposti dal linguaggio dei contadini e dei pescatori, ma anche raffinati e colti, reso accessibile dalla magistrale traduzione di Nicola Crocetti.

Nell’Odissea, Kazantzakis riesce a inserire i temi cardine della sua filosofia, unendo il vitalismo di Bergson, l’oltreuomo di Nietzsche, la riflessioni sul tramonto dell’occidente si Spengler. Ulisse è infatti l’oltreuomo che ama “gli abissi”, che vedendo il languore di un mondo debole e impotente, fonda i suoi valori, inseguendo lo slancio vitale, rinnegando la decadenza del mondo occidentale, compiendo quel destino che coincide nella lotta, nell’ascesi dalla limitatezza della vecchiaia (Menelao), della sterilità spirituale e culturale (Idomeneo), dalla vita comoda e corretta degli “ultimi uomini”come Telemaco. Contrapponendovi una visione della vita tragica ed dionisiaca, in uno slancio di continua sfida con la morte e i limiti della vita. In nome di una virtù magnifica che consiste nel ribellarsi al giogo antropofago del ciclo naturale, dicendo “no alla terra che dice si”. Attraverso un viaggio che lo porterà in un mondo guasto e decadente, in cui sono svalutati tutti i valori supremi, preda dei grandi cambiamenti sociali.

Tra il languore delle vecchie società in putrefazione e l’arrivo dei nuovi popoli barbari. Scrivendo, come ammesso dal suo autore il grande “epos della razza bianca”, che spenta e disincantata sprofonda nelle illusioni delle nuove religioni, dell’utopia, del dispotismo. Mostrando dopo il poema degli dei(iliade) e quello degli eroi(odissea) viene quello degli uomini e della fine della civiltà. Raccontando attraverso Ulisse un “inno alla fragile grandezza dell’uomo”, come disse Decaux. Mostrando un’umanità che si confronta con i grandi temi della letteratura, incontrando Cristo e Lenin, Donchisciotte e Siddharta, l’edonismo e il rapporto con il femminino. Un viaggio che inizia con Omero e che finisce con Dante, che si apre e si chiude con una invocazione al Sole, principio della vitalità, della lotta, del destino tragico umano. Che al nostos, il poema del ritorno, contrappone il poema dell’eterno ritorno. Tramite l’ultima tentazione d’Ulisse. Quella di mostrare “come l’uom s’etterna”.