Maestro, stiamo lentamente uscendo dall’emergenza coronavirus. Lei come ha vissuto gli ultimi mesi come direttore del CPM?
Purtroppo anche io sono rimasto “fuori gioco” per parecchio tempo a causa del virus, che ho sconfitto anche grazie alla musica; la mia passione mi ha infatti sostenuto nei momenti bui, di vuoto, fino a farmi vedere la luce infondo al tunnel e aiutarmi a raggiungerla. Fortunatamente però al CPM eravamo pronti e ci siamo organizzati per tempo con le lezioni online per poter fronteggiare l’emergenza. Certamente una delle cose più importanti che abbiamo offerto agli studenti è stata la possibilità di far parte di una rete solidale, dove i ragazzi del terzo anno – in procinto di diplomarsi – hanno aiutato quelli agli inizi che potevano aver bisogno di maggiore supporto.
E come musicista?
Come musicista ho meditato su quello che ci ha lasciato questo periodo buio. Ho capito che a me personalmente ha lasciato la voglia di maggiore profondità, di una dimensione musicale straordinaria, intima, di qualità, che indaghi la sfera emotiva delle persone. Per un po’ noi musicisti avremo davanti un pubblico con le mascherine e distanziato: dovremo raggiungere il loro cuore con maggiore verità. Già questa è una bella sfida. Si tornerà indietro nel tempo a quando la musica assomigliava di più a una dimensione teatrale, meno spettacolare. Come diceva Jannacci: “Ci vuole orecchio…”. Ecco, noi così faremo: con le orecchie e con il cuore e un po’ meno con gli occhi. Con questo spirito infatti, gli studenti del CPM, si preparano ad esibirsi al Castello Sforzesco domenica 21 giugno per la rassegna Estate Sforzesca 2020.
Facciamo un salto nel passato. Lei ha suonato con grandissimi artisti, ma di Battisti, che ricordo ha?
All’inizio la PFM era un gruppo di turnisti: suonavamo con grandi artisti, tra cui Lucio Battisti. Tutti i suoi dischi fino alla Canzone del Sole li abbiamo suonati noi infatti. Battisti era un uomo sensibile, una persona schiva che amava il suo lavoro (e lo interpretava con l’estro del genio) ma non le logiche dello showbiz. Aveva la musica dentro, era uno straordinario compositore e forse il primo “afroamericano” italiano per lo stile. Mi spiego: Lucio aveva il senso della composizione ritmica tipica del sound black, ma sapeva unire il tutto a una italianità straordinaria in quel mix esplosivo che era la sua musica. Lucio traduceva lo spirito in musica, con Mogol che poi gli cuciva addosso i testi.
I tre palchi più importanti della sua carriera.
In ordine cronologico. Il primo è stato quello dello Smeraldo di Milano, avevo 16 anni e significava davvero entrare in uno spazio importante (dove poco tempo prima per altro avevo assistito al concerto dei Jetho Tull). Al secondo posto metto la prima apparizione al Lirico di Milano con la PFM: facevamo da spalla agli Yes. Terzo e ultimo: quello del palasport di Bologna dove abbiamo fatto da spalla ai Deep Purple e in seguito vi abbiamo anche registrato un famoso concerto di De Andrè.
Ci regalerà un altro concerto insieme alla PFM, oppure…
Quando penso alla PFM sento tanta gratitudine per i miei compagni di viaggio di lungo corso. Ma ho il cuore libero e non sono nostalgico, loro stanno continuando a fare grandi cose e non penso che torneremo assieme nel prossimo futuro.
Senta ma lei quante chitarre ha e qual’è quella alla quale è più legato.
Ne ho avute tante e altrettante me le hanno rubate in due episodi: una decina in un locale a Los Angeles dove avevamo lasciato la strumentazione e il giorno dopo era sparita, insieme a un cameriere del locale guarda caso; un’altra serie di chitarre invece mi è stata trafugata da un camion. Anzi, è sparito proprio il camion intero. Comunque, le chitarre alle quali sono più legato sono una chitarra classica Chet Atkins e una elettrica Gibson Les Paul 25/50 costruita in soli mille pezzi. Io di quelle mille ho la numera tredici: è uno strumento straordinario, con una sonorità molto interessante, con il tempo diventata quella associata a Impressioni di settembre.
Ci racconti il suo lato da artista visivo invece…
Musica e arte visive vanno di pari passo, la letteratura e la musica vanno di pari passo. Ho immaginato dunque di poter raccontare e rappresentare la musica. La prossima mostra la farò al museo d’arte contemporanea di Lissone, dove parlerò dei sei elementi della musica e delle varie sfumature che assumono. Questo del resto è il bello dell’arte, scoprire sfumature nuove di qualcosa che si pensa di conoscere. In questo senso più apro porte e più se ne aprono.
Mussida, per concludere ci racconti un episodio OFF che ha cambiato la sua vita.
Sono figlio di una famiglia di postali che nei primi anni ‘50 il sabato sera si riunivano per suonare e cantare tutti insieme con gli amici; io li ascoltavo e mi addormentavo. Mio padre suonava la chitarra e io, da piccolo, non capivo da dove uscisse la musica. Così quando avevo 4 anni andai a prendere la sua chitarra e la portai sul tavolo della cucina guardando nel buco. In veste istintiva detti una manata alle corde e appoggia l’orecchio sulla cassa armonica. Quello fu il mio battesimo, per me fu come stare in mezzo al sistema solare, in una dimensione universale: sentivo vibrazioni che facevano nascere dentro di me emozioni nuove. Da li mi sono innamorato perdutamente della musica. Così ho iniziato a suonare da solo e a intraprendere un rapporto privato, intimo, con lo strumento. Ho iniziato a rubare le posizioni delle mani a mio padre osservandolo. Poi ho capito che sbagliava gli accordi e ho iniziato a sistemarli, finché un Natale a 12 anni mi sono rivelato correggendo mio padre. Il lunedì seguente, colpito dalla mia inclinazione, mi accompagnò a iscrivermi alla scuola di musica.