“Una risata ci salverà”. Ed è con la caratteristica ironia che Max Papeschi racconta a Off la sua carriera e il nuovo progetto multimediale “Hic sunt leones” (Qui ci sono i leoni), espressione latina utilizzata nelle carte geografiche per indicare quei luoghi ancora inesplorati del continente africano da conquistare. Dal 22 luglio al 30 agosto, promossa dalla Regione Lazio e organizzata da LazioCrea, la mostra dell’artista milanese al palazzo WeGil nel rione Trastevere della Capitale, prodotta da GV Srl. La curatela è affidata a Gianluca Marziani in collaborazione con la Fondazione Maimeri e l’art director Flavia Vago. Dopo il tour internazionale di “Welcome to North Korea”- con cui nel 2016 ha dato vita a questa particolare serie espositiva – Papeschi ha scelto di riscoprire l’Italia, ripartendo proprio dal Bel Paese dopo l’emergenza pandemica. Digital cutting, video-installazioni e quell’irriverente verve,che lo hanno reso celebre nel mondo, assumono i toni del Tricolore in segno di rinascita culturale fra le architetture razionaliste della location che ospita la personale. L’ex Gil, oggi WeGil, diede infatti i natali alla “Gioventù Italiana del Littorio” nel ventennio dominato dal Fascismo. Terreno fertile per il suo sarcasmo socio-politico dove, in una parodia visiva, il primo Topolino vestito da nazista lascia spazio all’autocitazione del nipote “sfigato” Topo Gigio, in divisa da ufficiale fascista. Il bene e il male a contrasto: icone pop amate dai bambini, e simbolo dei valori buoni, contro l’ideologia dei regimi incentrata sulla distruzione. L’expo è però anche un’antologia dei suoi precedenti lavori con cinque stampe realizzate tramite la tecnica del collage digitale e cut-out figures che rappresentano il Duce (a testa in giù nella locandina). Il videoclip, ideato con Maurizio Temporin, sembra il classico short movie di sfondo che accompagna le canzoni: in questo caso “Faccetta nera”. Un puzzle ad incastro che corrisponde in tre parti alle mappe delle ex-colonie “dell’Impero” e del colonialismo, nonché un’allegoria scolpita sulla parete principale nell’allestimento site specific. Sessanta le opere, il “best of” della creatività papeschiana in cui non mancano “NaziSexyMouse”, “Just Married”, “La Société du Spectacle” e “From Hiroshima with Love”. Fino ad arrivare ai più recenti “The Leader is Present”, “The Golden Cage” e il video “It’s all Devo”, pensato da Temporin per il singolo omonimo del cantautore americano Gerald Casale dei Devo. Così Papeschi prende in giro i “leones”, ovvero le nostre paure, attraverso l’arma pacifica e benefica dell’arte figurativa.
La sua arte è una giocosa satira politica.
«Sì, racconto il mondo che vivo, che vedo e che sento. In particolare i fatti che sono accaduti nel tempo storico. Il mio lavoro è una satira sulla storia, non solo sul presente ma anche sul passato che è lo specchio dell’attualità. Lo faccio attraverso la mia visione artistica. Ogni ciclo o serie di mostre che ho portato in giro, seppur diversi tra loro, si aggancia a questo tipo di concept».
Da Mickey Mouse a Topo Gigio. Una passione per i ratti?
«Topo Gigio è un’autocitazione voluta. L’ispirazione deriva da un’intervista rilasciata nel 2010 ad una rivista statunitense che mi chiese come mai avessi usato il Topolino americano vestito da nazista. Risposi che avrei potuto pensare a Topo Gigio vestito da Benito Mussolini, ma l’idea non sarebbe uscita fuori dai confini nazionali perché nessuno l’avrebbe compresa. Però mi è rimasto questa pensiero del topo “sfigato e all’italiana”. Quindi, per la mia esposizione romana che è allestita al WeGil, un palazzo degli anni ’30 già sede della Gioventù Littoria, mi è venuto in mente il Gigio fascista. La mostra della Capitale, al di là del nuovo progetto sulla Guerra d’Etiopia, presenta una selezione di 60 delle mie opere più importanti dal 2008 in poi. Una sorta di “best of”, un’antologica se vogliamo. Volevo creare un topolino che non fosse stato mai visto, la cosa mi divertiva parecchio».
Topolino vestito da ufficiale nazista e la sua mostra al WeGil di Roma. Come mai questa scelta?
«Si tratta di una delle mie prime serie, risale a 12 anni fa. L’America portava avanti il suo colonialismo imperialista con cui andava a fare guerre in Iraq e in Afghanistan. Mascherandosi dietro un volto buono mediante operazioni di peace-keeping come “Restore Hope”, cioè “ridare la speranza”. L’idea era quella di camuffare il tutto come se fosse una cosa positiva e friendly. Topolino, che è il testimonial dell’infanzia, del bene e di valori puri, sul corpo di un ufficiale che in Europa era il simbolo del male assoluto. Un ossimoro visivo. Anche adesso, fuori dall’Italia, riconoscono Mussolini ma non Topo Gigio. Non avrei avuto la stessa visibilità mondiale agli inizi della mia carriera se lo avessi usato al posto di Mickey Mouse. In realtà, Topo Gigio è uno dei primi lavori che eseguo ispirandomi all’Italia, l’ho raccontata poco».
Nelle sue opere prende in giro il dittatore nordcoreano Kim Jong-un.
«Mi stanno sulle scatole tutti i regimi, sia quelli di destra che di sinistra. Non cambia molto. Quando esiste una dittatura e c’è un leader che impone delle regole stringenti, la differenza è impercettibile. Bisognerebbe concentrarsi sui Paesi dove vivono delle democrazie imperfette, farraginose, piene di corruzione e problemi. L’estetica non è molto diversa: ad esempio i palazzi di Mosca, durante lo Stalinismo più duro, erano simili a quelli dell’Italia fascista e della Germania nazista. Nell’ultimo caso non tutte realizzate perché il Nazismo è finito prima della loro costruzione. Le architetture, così come le musiche che appartengono a quei tempi, sono accomunate da un’ideologia di fondo».
Leggende metropolitane milanesi narrano che, dopo ogni opening delle sue personali, sia solito lasciarsi andare all’ebbrezza delle bollicine. Ispirazione d’artista?
«È tutto vero, poi con gli anni ho dovuto darmi una calmata (ride, ndr.). Non è una leggenda, ne parlo nella mia autobiografia. Ho avuto un periodo molto divertente, legato all’alcol e alle donne. Devo confessare che me la sono goduta».
Sesso, droga e “Pop’n’roll”?
«Anche droga, però è da tanto tempo che non la frequento più. Non mi sono fatto mancare niente. D’altra parte ero un “ragazzino” negli anni ’80 e ’90, sono nato nel 1970». (ride, ndr.)
La Minnie desnuda di “NaziSexyMouse”. Come si rappresenta la trasgressione nel “Pop Surrealism”?
«Uso Photoshop, non mi piace identificarmi nel Surrealismo Pop. La mia è un’arte più satirica, mentre i pop surrealisti ricorrono spesso al sesso nelle loro opere. Nel mio lavoro c’è molto poco di sessuale».
Secondo lei perché viene associato alla corrente artistica, capitanata da Mark Ryden, pur non facendone parte?
«A mio avviso il tutto nasce dal debutto, quando una galleria specializzata di Roma, “Mondo Bizzarro”, mi chiamò per esporre. C’erano tanti artisti legati concettualmente a quel filone e hanno organizzato delle collettive di cui ero ospite. Non è però il mio genere e non mi fa impazzire questa identificazione. Facendo un’arte figurativa con icone pop finivo in quel tipo di giro. Tra l’altro, le mie serie preferite sono quelle in bianco e nero, non amo particolarmente i colori, ma alcune delle mie opere più famose sono proprio quelle colorate. Per le tematiche trattate mi sento più vicino a Ron English, che utilizza la simbologia della cultura consumistica come l’omino del McDonald’s, invece che a Ryden, il quale ricorre ad un lessico più onirico e fiabesco. In America si fa poca politica. Non è un caso che le mie mostre più importanti negli Stati Uniti le abbia fatte a San Francisco, poiché a Los Angeles l’area pop surrealista californiana non narra nulla di politicamente scorretto, altrimenti i galleristi non espongono. In California non amano parlare di fatti politici, che sono divisivi, perché stanno lì a far soldi e preferiscono monetizzare. Tendono al soft, l’unica eccezione è lo street artist Banksy, le cui origini sono però inglesi, quindi europee. Si è affermato come progetto grazie a manager americani, partendo tuttavia da una base anglosassone.Se negli Usa fanno politica, gli artisti restano ai margini e sono considerati off. Non diventano mainstream come invece è successo a me in Italia con esposizioni negli spazi pubblici».
Cultura popolare e mainstream. Esiste una differenza nel linguaggio artistico?
«C’è un po’ di confusione su questa distinzione. Ogni artista fa gara da sé. Il grosso scarto avviene tra chi è underground e rimane sottotraccia, poiché è interessante all’inizio ma poi tende a sgonfiarsi. Perché se non ci si allarga ad un pubblico più ampio si rischia di ripetere sempre una formula autoriferita. Invece, mescolando popolare e mainstream, si sente la necessità di cambiare. Ho vissuto sulla mia pelle tale differenza, ma se non ci si evolve il rischio è la stagnazione. Gli artisti statunitensi che giocano con la satira, infatti, tendono a ripetersi per poi sparire negli anni, addirittura cambiando mestiere».
Il Covid-19 e il lockdown hanno stimolato l’estro dei creativi?
«Nel mio caso no, mi ha fatto schifo e basta. È stata una catastrofe triste, vissuta in pigiama e pantofole. Non ha avuto niente di epico questo “nemico silenzioso”. Sarebbe interessante studiare come hanno reagito stati e istituzioni dei vari Paesi perché, se si esclude l’ultimo fatto internazionale grave, quale l’11 settembre, dal ’45 in poi non abbiamo avuto più nulla di così eclatante. E le “Torri Gemelle” restano comunque un affaire americano. Per la prima volta con il virus i governi mondiali hanno dovuto affrontare un’emergenza che riguardava tutti e si è vista tanta impreparazione. Da un punto di vista sociologico ci sono alcune cose che hanno funzionato, altre meno».
Ha mai pensato ad un politico italiano odierno per una sua opera?
«I politici nostrani non li affronto perché durano talmente poco che non ne vale lo sbattimento dell’opera. L’ultimo, sul quale ho realizzato un video visibile in rete e intitolato “Greetings from Italy”, è Silvio Berlusconi. Lui è stato il simbolo di un ventennio, una personalità che si è storicizzata. L’ho visto circa un anno e mezzo fa all’inaugurazione della mostra milanese di sua nipote, la pittrice Luna. E, quando è entrato, aveva tutto il pubblico intorno a sé, ormai è una figura storica. Tant’è che pure i suoi nemici volevano vederlo e questa cosa l’avevo sentita di Napoleone a Waterloo. I soldati inglesi utilizzavano il binocolo e cercavano nell’esercito francese Bonaparte per togliersi lo sfizio di aver visto, come scrivevano nelle loro memorie, “il piccolo generale”. All’epoca era diventato talmente importante nell’immaginario collettivo tanto da essere interessante per i suoi osteggiatori. Stessa cosa per Berlusconi, che all’opening ho salutato divertendomi. L’ammirazione degli avversari lo rende un personaggio storicizzato. Gli altri non durano abbastanza. Non faccio il vignettista, sono un artista. Se due anni fa avessi realizzato un’opera con Matteo Salvini e Luigi Di Maio che si baciavano, sei mesi dopo il tutto sarebbe diventato un fatto inutile che, come noto, è finito. Pensiamo a quanto poco è durato Matteo Renzi: oggi nessuno lo immaginerebbe più nei panni di leader. Anche l’altro Matteo si è ridimensionato e, quando apre bocca, gli fischiano dietro. Diciamo che non hanno meritato di passare alla storia».