La votazione da parte del Parlamento di Strasburgo della nuova normativa europea sul copyright ha aperto parecchie discussioni, dai dibattiti sui social fino alle proteste più clamorose come quelle messe in atto da Wikipedia.
Tutto questo non può che stimolare una riflessione seria su un argomento sempre più bistrattato come il diritto da parte di chi crea un’opera di qualunque tipo di vedere riconosciuto il proprio lavoro.
Qualche giorno fa al bar mi sono trovato a discutere con un uomo che esaltava la libera circolazione dei contenuti portando come esempio suo figlio, produttore di musica trap, arrivato al proprio quarto d’ora di celebrità grazie a migliaia di visualizzazioni ottenute sui social network.
Certo, l’esempio del “trappista” è senza dubbio un caso fortunato e non raro. Ho fatto però presente al signore in questione che per molti l’arte non è un mero passatempo ma un lavoro a tempo pieno. Molti non cercano solo i tre minuti d’attenzione usa e getta tipici dei social network ma lavorano una vita intera per portare avanti un discorso culturale più profondo.
Insomma, siamo di fronte a due generazioni che vivono la creatività su due binari diversi: da una parte il mondo dell’apparire e dall’altro quello dell’essere. Due concezioni fra cui la tecnologia ha abbattuto i confini.
Che fare, dunque? Il compito del legislatore è, quasi per definizione, quello di mettere ogni cosa al proprio posto.
Chi vuole lavorare gratis lo faccia pure, se pensa di avere maggiore visibilità, ma altri che fanno della propria arte un vero mestiere meritano che venga riconosciuta la fatica della fantasia.
Ovviamente il tema è molto spigoloso, visto che va a toccare in modo pesantissimo anche il mondo dell’informazione con la tanto discussa “link tax”.
Occorrono dunque equilibrio e grande conoscenza della materia trattata per trovare il giusto compromesso fra la libertà di condividere informazioni e il diritto a essere retribuiti equamente per il proprio lavoro.