Il venticinquesimo anniversario della morte di Giuseppe Verdi (1901) si celebrò con la prima traduzione in inglese del suo epistolario: nel 1926 usciva, infatti, a Vienna, Giuseppe Verdi: Briefe, a cura di Paul Stefan (1879-1943, allievo di Schoenberg e critico musicale del Musikblätter des Ansbruch) e Franz Werfel (1890-1945, scrittore, marito di Alma Schindler vedova Mahler).
Quella stessa silloge veniva ampliata e, nel 1942, usciva negli Stati Uniti con il titolo di Verdi: The Man in his Letters. Quello stesso titolo è stato mantenuto anche per quest’edizione italiana dell’opera: Verdi. L’uomo nelle sue lettere (Castelvecchi, pagg. 425, euro 25).
Perché tradurre in italiano un’opera contenente documenti già originariamente in italiano? Perché non vi sono solamente le lettere verdiane: l’edizione che Castelvecchi offre, infatti, riveste un’importanza musicologica che va al di là dell’epistolario del maestro di Busseto. In Verdi. L’uomo nelle sue lettere, infatti, vengono offerti in lingua italiana i testi dei commenti e delle note scritte da Stefan in modo da tratteggiare, così, un’importante testimonianza della ricezione verdiana inglese nella prima metà dell’Ottocento.
Oltre alle 393 lettere raccolte all’epoca dai due curatori, il volume riporta in apertura un interessantissimo Ritratto di Giuseppe Verdi di Werfel. L’autore attesta la lacunosità di materiale verdiano almeno dal 1910, data in cui iniziò a interessarsi del compositore italiano: «Solamente un esiguo numero di prescindibili biografie, tutte uguali, e un solo studio dell’opera a firma di un certo Basevi, scritto (sembra incredibile) nel 1857». Su Wagner, invece, morto nel 1883, scrive Werfel, «sono state scritte biblioteche intere già mentre era ancora in vita. Ad oggi il numero di libri che ne parlano supera abbondantemente il migliaio».
La colpa? Di Verdi stesso, secondo lo scrittore, che “ha sempre voluto occultare le tracce della sua vita privata”
La dimensione umana, privata, quotidiana, è ciò che interessa maggiormente ai due curatori e che, probabilmente, interessava maggiormente negli anni Venti del Novecento.
Lo ammette lo stesso Werfel: «Guardiamo alla sua vita come guarderemmo ad una stanza ordinata con cura attraverso una finestra; tutto è al suo posto. Chi vi passa di fronte pensa: che c’è da vedere? Mentre un altro, scostandosi dalla finestra, riflette turbato: c’è qualcosa eppure non vedo nulla. La magia di una vita, avvolta non dall’oscurità e dal mistero ma dalla sobria luce del sole, è un richiamo irresistibile». «I suoi lavori non ci dicono abbastanza – aggiunge Stefan nella Postilla – Solo le lettere dischiudono il mondo di Verdi».
Un testo, dunque, estremamente appassionante: a patto, però, di lasciar per un momento da parte ciò che conosciamo del padre del melodramma italiano e vestire i panni di un non italiano di inizio Novecento, affascinato più che mai dalla «magia di una vita» di questo idolo e altrettanto incuriosito nel voler sondare quel «qualcosa» che (fino ad allora) non si vedeva.