Il libro parla di solitudine, quella di una figlia e di una famiglia, prima emotivamente e poi materialmente abbandonate dalla madre, che abortisce i figli da viva. Ma parla anche di riscatto e speranza, di una ragazza che non ha ceduto alle delusioni della vita e non si è fatta trascinare dal mal di vivere. La solitudine di un padre separato, che deve fare i conti con un sistema giudiziario pregiudizievole e a senso unico. La solitudine di un’identità, quella italiana, sovente sacrificata sull’altare dell’esterofilia ad ogni costo. La solitudine di una giovane donna, che non ha bisogno di etichette vittimistiche per essere considerata tale e avversa il femminismo rampante dell’epoca moderna, ritenendo l’emancipazione semmai come la capacità di considerarsi l’una diversa dall’altra.
Ma il libro -a tratti doloroso, a tratti ironico e graffiante- è anche un invito alla ribellione, alla lotta contro gli stereotipi e il pensiero unico dominante, laddove la comprensione per le vittime passa in secondo piano rispetto alla “sensibilità” della società verso i carnefici.
E’ un libro che trasforma Sephora, la protagonista, da sconfitta a protagonista, da vittima a simbolo di un mondo diverso e più consapevole di problematiche che, senza la sua battaglia, sarebbero destinate a rimanere sepolte.
E’ un libro controcorrente, non su un piano ideologico ma su quello della testimonianza di realtà poco conosciute eppure forti e reali. Esattamente come il titolo, provocante, non provocatorio. Sephora non vuole stupire o urlare ma convincere, far aprire gli occhi.
Consiglio di leggere questo libro per scoprire situazioni poco convenzionali che in realtà sono molto più comuni di quanto si possa immaginare. Dichiararsi antifemminista come la protagonista, in un’epoca in cui l’essere donna comporta in certi ambiti non la discriminazione, bensì il godimento di diritti superiori agli uomini, in un contesto generale in cui la considerazione dell’essere femminile sia quello di vittima predestinata della naturale veemenza dell’uomo, è da ritenersi una grande prova di coraggio e di totale autonomia dal pensiero unico: il “partorire” nero su bianco talune realtà, a loro discapito “figlie” di una crisi di valori nella società e ancor più radicalmente nell’identità è altresì temerario oltre che, senza dubbio, obiettivo, trattandosi di una testimonianza femminile a favore degli uomini, una voce finalmente non afona in grado di raccontare e far sì che le vittime di violenza silenziose possano ritrovarsi. E consolarsi.
Leyla Ziliotto, genovese italo-marocchina di 25 anni, laureata in lingue e culture moderne all’Università di Genova. Campionessa italiana di bocce nel 2011, giocatrice della Nazionale marocchina, medaglia di bronzo al valore atletico CONI. Ex vice-presidente di un’associazione destinata al supporto dei papa’ separati. Con la stessa casa editrice, e’ autrice di un racconto all’interno di un altro libro (dove vi è anche un mio racconto sempre sui padri separati). Parla cinque lingue. Attualmente conduce una rubrica televisiva dedicata alle bocce.
@Ariel
La crescita, intesa come esperienza nella vita, è spesso la somma di tanti errori. A volte non sono sufficienti e ci si ricasca. Io sono cresciuto in una famiglia in cui i genitori si odiavano e spesso arrivavano alle mani. Non è stata un’infanzia molto bella e i ricordi di quel tempo mi lasciano, ancora oggi, un certo amaro in bocca. E’ pur vero però che la nostra famiglia era quella, il nostro nucleo, in cui amaramente rifugiarci, era quello e su quello si contava.
Ora come ora quei giovani genitori che abbandonano i propri figli per irresponsabilità o perché, come bimbi, lasciano un giocattolo per un altro più luccicante mi fanno solo pena, pena per loro, per i loro figli e per un’educazione che questi genitori hanno avuto irresponsabile. La frase che andava di moda e che ancora va di moda è “poverini, sono ragazzi, dai! Lasciali fare. Cresceranno e vedrai che capiranno” Errore madornale nel senso più assoluto. Un bimbo NON lo si lascia fare, ma gli si mostra la vita per migliorarsi. Certo deve sbagliare deve capire cosa è giusto e cosa non lo è, ma come ogni pianta necessita di un tutore per crescere dritta e sana così anche il bimbo necessita di una guida unica (la famiglia). Non importa se questa è scassata come lo è stata la mia, ma è necessario che questa abbia un unico obbiettivo un unico punto di riferimento che sono i figli
Sono molto curioso di leggere il libro, anche perché è una scrittrice esordiente.
Anch’io sono stato abbandonato da un genitore, dal padre però.
Molto spesso ho voglia di dare la colpa alla società o a qualche forza divina ma alla fine è inutile perché le scelte delle persone sono appunto questo: scelte. Chi sceglie consciamente una strada deve prendersi tutte le responsabilità di tale scelta. Se mio padre ha scelto di abbandonarci e di tagliare i rapporti allora dovrà soltanto affrontare le conseguenze di tale scelta, senza rancore e senza dare la colpa a qualche figura oscura o qualche moda del periodo.
Non è il femminismo il problema perché dare la colpa al femminismo sarebbe come dare la colpa all’intera società e quindi non ammettere i propri sbagli, un comportamento del tutto infantile. È stata tua madre a voler fare proprie certe idee e a decidere di abbandonare la famiglia, per quanto facile o difficile questa scelta sia stata.
Mi auguro che anche Leyla un giorno diventi madre, magari una madre migliore, che cerchi di dare il meglio alla propria famiglia, senza dare la colpa alla società o al mondo per le proprie lacune, per i propri sbagli e per le proprie mancanze.
In fondo crescere e diventare maturi significa proprio questo: prendersi la piena responsabilità delle proprie azioni.
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