Ci sono luoghi del Sud che ti rapiscono l’anima. Una bellezza fatta di donne sedute sulle scale, cartocci di dolci e messe la domenica mattina. Scendere al Sud è un viaggio dentro se stessi, difficile, bellissimo. Risalire è solo ipotesi. Soprattutto quando nasci a Turi, un lembo di Puglia, negli anni di inizio Novecento.
Se hai dentro il fuoco del pallone ci provi a salire al Nord, ma la scala è fatta di gradini di sabbia e salsedine: Molfetta, Frosinone, Siracusa, Messina. Impossibile da salire. Oronzo, però, aveva il cervello fino e le parole sapienti dei vecchi del suo paese. Incatenava con lo sguardo, svegliava cuori, lanciava all’assalto giovanotti con poca arte.
Un allenatore di provincia, di quelli che, come si usa al Sud, si guadagnava l’appellativo di “Don” riservato agli uomini di chiesa o di malaffare. Il suo è un miracolo minore che si racconta la sera nei bar della città, tra un caffè e un sorriso. Te lo ricordi il Foggia di Don Oronzo Pugliese?
31 gennaio 1965. L’Inter di Helenio Herrera è campione d’Italia, d’Europa e del Mondo. Il Foggia è appena arrivato in A. Nello spogliatoio dello Zaccheria non vola una mosca. Solo la voce del Don: «Uè picciotti, tranquilli avete ventidue gambe come loro».
Escono con le maglie rossonere di lana grossa senza fronzoli. Li accoglie un urlo infinito. Il campo è anima di Puglia: terra, sabbia e sansa di olive. Corrono come se ne andasse della vita. Il Don corre con loro lungo la linea laterale: «Dai, dai, bravo così, non mollare». Primo tempo 0-0.
Giorgio Majoli è veronese come Mariolino Corso e le similitudini finiscono qui. Ma il vento del Sud soffia forte. Punizione dal limite, una foglia morta che si appoggia sulla traversa. Torna in campo e Lazzotti la mette in rete. 1-0. È un sogno e chi si sveglia. Passano sette minuti e Nocera, scugnizzo di Secondigliano, controlla una palla col tacco facendo saltare in aria tutta la difesa dell’Inter, diagonale sbilenco di destro, 2-0. In tribuna i figli, più pazzi dei padri, «Papà, papà vinciamo!».
L’Inter si desta dal torpore di scaramanzie, sale fino dietro le porte e corse a perdifiato che l’aveva assopita. Dieci minuti, due nomi, Peirò e Suarez, pareggio. Manca un quarto d’ora. La giacchetta del Don è volata sulla panchina di legno, senza copertura che tanto a Foggia non piove mai.
Correte ragazzi, correte, date il sangue è la vostra unica ricchezza. E quei pazzi corrono. Passaggio dalla destra, Guarneri va per anticipare Nocera e quel Masaniello improvvisato fa uscire pazzo tutto il bancolotto. Controlla di destro e lascia partire una sassata di sinistro all’incrocio dei pali. E chi li tiene più. Padri, figli, gente che non ha mai vinto, tutti in campo ad abbracciare i picciotti. Resistono, il Foggia è un bastione d’orgoglio. A fine partita il giornalista chiede, con rispetto, «Don come ha fatto a battere la psicologia di HH?» e lui: «La psicologia è roba da ricchi, la grinta è roba da poveri». Le domeniche al Sud.