Volete un’estate ribelle? Questo fa per voi

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arthur-rimbaud-rimb-bow-tie-largeQuesta estate leggete Rimbaud. Non fate come tutti gli altri, non badate, almeno per quest’anno, alle solite classifiche, ai consueti consigli per gli acquisti, alle banali guide sui “libri da leggere sotto l’ombrellone” o da portare in valigia. Non badate a quell’indifferenziata valanga di carta che ingombra allo stesso modo gli scaffali delle librerie-supermarket, degli Autogrill o delle Poste. Questa estate leggete Rimbaud. Qualsiasi cosa, qualsiasi opera o poesia. Lasciatevi illuminare dalla bella rivolta alla ricerca dell’assoluto di un giovane poeta francese dell’Ottocento decadente.

La sua poesia, incendiaria e ribelle, è l’eco della bella stagione dell’anima umana. È come un’eterna estate in cui vita e poesia, bellezza e realtà, si fondono in maniera irripetibile in un linguaggio oscuro e balenante, che brucia i dati dell’esperienza sensibile con immagini sconvolgenti. Rimbaud non ha fatto altro che vivere sempre d’estate. Accecato dal sole splendente della sua poesia, bruciato dalla calura dei suoi versi.

Jean Nicolas Arthur Rimbaud nasce a Charleville, nelle Ardenne, il 20 ottobre 1854. La sua breve esperienza letteraria si limita solo agli anni che vanno dal 1870 al 1875 e coincide con il tragico sovvertimento giovanile contro il desolante conformismo borghese dell’epoca. Leggendo alcune delle sue prime poesie, è impossibile restare immuni dall’urto dinamitardo di un temperamento lirico così personale e rovente. Quel carattere irrequieto e trasgressivo, insofferente a qualsiasi equilibrio e certezza, trasuda ed evapora in ogni suo componimento.

Se qualcuno volesse farsi un’idea di quella che è stata l’insurrezione spirituale di Rimbaud contro l’ordine precostituito, non può non conoscere il metallico splendore delle Chercheuses de poux, degli Effarés, o la potente durezza di Ma bohème, dei Poètes de sept ans, o ancora, le imponenti visioni del Bateau ivre e le audaci sinestesie del sonetto Voyelles.

Perché rimestare, proprio d’estate, le pagine antiche di un «poeta maledetto»? Una generazione dopo l’altra, continuiamo ad attendere esempi umani che ci indichino la via della verità, del bene e del male, che ci insegnino il bello e il brutto, ciò che è giusto e sbagliato. Nel frattempo si vagabondeggia nel freddo nulla. Massificare le nostre esistenze all’insegna di ideali preconfezionati e valori su misura non ha davvero alcun senso. Subire passivamente le scalpellate dell’educazione, dell’istruzione, della formazione non serve a nulla se prima non ci si assume la responsabilità della ribellione! Senza di essa tutto sarebbe uniforme, identico, omogeneo, freddo e senza vita come l’inverno. All’opposto, l’estetica “estiva” ed eversiva di Rimbaud irradia e colora la vita, proprio come la bella stagione fa con il creato. La ribellione è colore, calore, antitesi che ritrova il suo senso nella sintesi, ovvero nella tensione che si consuma in ognuno di noi tra ciò che è esterno e ciò che è interno, tra ciò che rappresenta il mondo e ciò che rappresenta l’io, irriducibile e irripetibile. Solo dalla fusione di questi elementi può nascere quel vero senso di libertà e purezza, tanto ambito da Rimbaud. La rivolta, in questo senso, non è mero rifiuto o distruzione di un ordine, ma la capacità libera di ricreare il mondo. Allo stesso modo in cui l’estate rivivifica la natura dopo il lungo inverno.

Come ebbe modo di ribadire lo stesso Rimbaud, esiste un «Assoluto» universale, indecifrabile, che oltrepassa l’uomo e lo rende creatura “divina”. Tale «Assoluto» è l’«ignoto» per eccellenza, eterno e trascendente, meta della ricerca poetica, che può essere intuito solo se si possiede l’estate nel cuore.

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Forse per questo la poesia di Rimbaud si anima e si regge sulla «teoria del veggente», esposta da egli stesso in una lettera a Georges A. F. Izambard, datata 7 maggio 1871, e applicata nell’opera Illuminations (1872). In quest’opera, infatti, egli tenta un’impresa estetico-metafisica: la logica del linguaggio e del reale viene scombinata per indagare il senso ultimo dell’ignoto che è nell’anima dell’universo. Il poeta, secondo Rimbaud, deve «farsi veggente con un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi», emancipandosi dalla società omologante, per andare al di là del fallace mondo della realtà e percepire l’assoluto, il sovrasensibile, l’inaudito e l’invisibile. Deve lasciarsi inghiottire da un gorgo vorticoso al fondo del quale c’è la paralisi, la consapevolezza che non vi è più nulla da dire. È questa la sola via che resta per sciogliere le antinomie di chi ha voluto misurare l’«ignoto» e sostare nell’«inferno», schiacciando la poesia ai bordi degli universi inesplorati. Il «poeta veggente» si getta così in un “paesaggio mentale” sempre più rarefatto, popolato di allucinazioni e di spettri. Anche se la sua scrittura si fa sempre più impossibile, ciò che conta è che sia giunto all’«ignoto».

Rimbaud riuscì davvero a farsi «veggente»? Lui stesso confessò il fallimento della “visione” nella sua opera Une saison en enfer (1873). La «realtà rugosa» che aveva creduto di superare, lo riaccolse desolante, brutale e senza via di scampo. A noi, tuttavia, resta ancora la possibilità di cogliere l’eredità di un genio rivoluzionario morto poco prima di compiere trentasette anni. Potremmo cominciare dall’estate, perché essa è la stagione di Rimbaud. È la stagione di Sole e carne (Soleil et chair, 1870) che «versa l’amore ardente sulla terra […] straripante di sangue» in cui «tutto cresce, e tutto sale!».

Questa estate leggiamo Rimbaud per ripossedere, oltre il tempo e lo spazio, la stessa incontenibile sete di assoluto, l’angosciosa ricerca della bellezza suprema e la sua rivolta a partire dalla sua stessa disfatta.