“Ab ovo usque ad mala”: dall’uovo alla mela, diceva Orazio. Presto la massima era scesa dalla tavola per indicare l’inizio e la fine di qualunque cosa. Un po’ come per noi quando siamo “alla frutta” per dire che una cosa è finita, neanche troppo bene. Marziale scrisse epigrammi che tuttora fanno arrossire. L’ab ovo usque ad mala, per questo castigatore dei costumi della Roma imperiale, è prima di tutto il racconto piccante del libertinaggio ante litteram dei romani, che non si facevano mancare nulla, neanche nel talamo.
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Marziale usò la frusta letteraria anche per le abitudini alimentari. Arrivato dalla Spagna nel 64 della nostra era, giusto in tempo per godersi gli eccessi di un impero all’apice, ne vide di cotte e di crude. Nel senso letterale dell’espressione, perché in Xenia si muove tra triclivi e portate luculliane, ponendosi a metà tra i libri di cucina di Apicio e l’esilarante racconto di una convivio di arricchiti nella Cena di Trimalcione di Petronio.
Tutto ciò ha ispirato l’ultimo libro del professor Giovanni Ballarini dell’Università di Parma, un’autorità nel mondo gastronomico: A tavola con gli antichi romani. Eccellenze, scandali, oscenità della cucina di Marziale (Il Melangolo, pp. 160, € 9). Xenia fa da contrappunto alla descrizione di alimenti e stili di cucina per noi inaccettabili. Oggi chi oserebbe mangiare ghiri, gru, cigni e pavoni? Di questi ultimi si scandalizza persino Marziale: “Lo ammiri tutte le volte che apre la coda piena di gemme, e hai il coraggio, crudele, di consegnarlo al cuoco cattivo?“. Che ne era stato delle frugali abitudini vegetariane della Roma repubblicana? Avevano lasciato spazio alla cucina di una metropoli cosmopolita e potente aperta a ogni novità: la New York del tempo antico.
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