Il libro che proponiamo all’attenzione – Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro (Saggi Mondadori, pp.228, Euro 14) – del lettore è notevole sotto vari aspetti, ed è particolarmente consigliato agli studenti desiderosi di approfondire le loro conoscenze sulla metodologia e il modo di procedere della scienza, inquadrati nel loro preciso contesto storico.
L’autore, Carlo Rovelli è uno dei massimi fisici teorici contemporanei, noto soprattutto per i suoi studi sulla gravità quantistica. Egli è anche un brillante cultore dei classici e il libro scaturisce da entrambe queste competenze, rare a trovarsi unite in una sola persona.
L’oggetto del libro è un grande filosofo presocratico, Anassimandro di Mileto, che Rovelli interpreta dal punto di vista del suo contributo alla nascita della scienza. Rovelli mostra che Anassimandro fu il principale autore di una fondamentale rivoluzione concettuale, che pose le basi per la nascita del pensiero scientifico. Anassimandro propone, per la prima volta nella storia del pensiero umano, di spiegare i fenomeni naturali senza fare ricorso ad argomenti di carattere soprannaturale o mitologico; al posto di questi egli pone il principio di necessità, per cui i fenomeni possono e devono essere spiegati come conseguenze, comprensibili a livello razionale, di altri fenomeni naturali. La cesura con il passato, in cui si “spiegavano” i fulmini con l’ira di Zeus è enorme. Oggi la proposta metodologica di Anassimandro ci appare ovvia, ma uno dei grandi pregi del libro è proprio quello di illustrare assai bene quanto essa suonasse rivoluzionaria alle orecchie dei contemporanei.
Per esempio, Anassimandro è il primo a dimostrare, con argomenti puramente razionali, che “la Terra galleggia nello spazio, e non ha bisogno di piani d’appoggio per non cadere”: Rovelli osserva che gli ingegnosi argomenti usati da Anassimandro sono tuttora validi, e che molti studenti di liceo, se non delle nostre attuali università, non saprebbero ripetere con altrettanta chiarezza.
Tuttavia, la maggiore eredità di questo pensatore è a livello più profondo, metodologico: Anassimandro ci insegna quali sono i due pilastri fondamentali del modo di pensare scientifico. Anzitutto, il rispetto intellettuale dovuto a chi prima di noi si è misurato con i nostri stessi problemi e ha tentato di fornire delle soluzioni, e in secondo luogo lo spirito critico da esercitare sempre verso queste stesse soluzioni.
A un livello superficiale, questi due principi possono apparire in contraddizione l’uno con l’altro: mentre il primo ci invita a “entrare in sintonia” con una tradizione di pensiero a noi preesistente e quindi giustifica l’esigenza di inserirsi in una tradizione culturale che funga da punto di partenza, il secondo, viceversa, ci spinge ad andare oltre la tradizione; a criticarla, contestarla e, se necessario, superarla senza altro riguardo che non sia quello dovuto alla verità, anche al prezzo di andare contro i nostri maestri e i nostri stessi padri. La genialità dei greci, scrive Rovelli, sta proprio nell’aver mostrato che, lungi dall’escludersi a vicenda, questi due principi sono complementari ed entrambi necessari per il progresso intellettuale e scientifico.
A partire da circa metà, l’opera, che fino a quel punto si era mantenuta su un rigoroso piano storico-scientifico, scivola sempre più verso quello, ben più opinabile, del discorso ideologico e metafisico. Infatti, dopo aver messo in luce con ammirevole chiarezza e numerosi esempi la necessità di entrambi i pilastri del procedere scientifico, Rovelli sembra dedurne che la difesa della propria identità culturale costituisca un serio ostacolo al progresso intellettuale e alla civiltà nel suo complesso.
Rovelli afferma che il vero motore dello sviluppo delle civiltà sia il “mescolamento delle culture”. Da qui, egli trae la conclusione che ogni rivendicazione identitaria sia allo stesso tempo causa e conseguenza di regresso culturale e civile. Come lui stesso afferma: “Quella purezza di identità culturale italiana che ancora oggi commuove i nostri concittadini meno intelligenti, spaventati dall’arrivo dei diversi (…) ogni volta che (…) ripieghiamo nella celebrazione della nostra specifica identità, non stiamo facendo altro che celebrare i nostri limiti e cantare la nostra stupidità”.
Per rinforzare la propria conclusione, Rovelli spiega perché la rivoluzione intellettuale greca si partita proprio da Mileto (città di Anassimandro, di Talete, di Anassimene…): “Mileto è l’ultimo avamposto greco verso i regni mediorientali. (…) Mileto, in altre parole, è di gran lunga la città greca più aperta al mondo, e in particolare alle influenze degli antichi imperi e alla loro secolare cultura. Dalla fertilizzazione reciproca tra il vasto sapere tradizionale mediterraneo e la novità politica culturale del giovane mondo indoeuropeo greco, nasce l’immensa rivoluzione culturale di Mileto”.
Abbiamo riportato per esteso questo passaggio, per separare ciò che a nostro avviso costituisce un’analisi accurata da ciò che non lo è. Quello che a nostro parere sfugge all’Autore è che questa “capacità di lasciarsi fertilizzare” dei Greci di Mileto non fu un fenomeno spontaneo, ma fu esso stesso un costrutto culturale. Più precisamente, esso fu un prodotto di una precisa identità culturale nuova, che i Greci si erano costruiti quando avevano introdotto, con la fondazione della polis e con il conseguente superamento del patto sociale e della struttura mentale tribale, un nuovo modo di organizzazione intellettuale e psicologica e quindi, in ultima analisi, proprio una nuova identità culturale.
È proprio in virtù di questa nuova identità culturale che i Greci di Mileto poterono permettersi di lasciarsi fertilizzare dall’antica sapienza egizia, rielaborarla dal proprio punto di vista, e produrre infine qualcosa di nuovo e notevole: per esempio, la filosofia e la scienza.
È certamente vero che il “mescolamento delle culture” può produrre progresso culturale, ma affinché questo avvenga è necessario che la cultura “aliena” sia interpretata, assimilata, e, al limite, criticata da un punto di vista che sia comunque all’altezza di confrontarsi con essa. In altri termini, da una precisa, e preesistente, identità culturale. Potremmo anzi dire che abbiamo qui un altro esempio della validità di due principi, che, apparentemente in contraddizione l’uno con l’altro, sono in realtà complementari ed entrambi necessari, proprio come i due pilastri del modo di pensare scientifico così acutamente individuati da Rovelli: la consapevolezza di una forte identità culturale, unita alla curiosità e alla capacità di lasciarsi fertilizzare (oggi si usa l’orribile termine “contaminare”) da culture lontane dalla nostra.
Che il “mescolamento delle culture” debba necessariamente condurre a un progresso culturale non è affatto automatico: lo stesso caso dell’incontro tra Grecia e mondo egizio, riportato dall’autore come esempio, mostra in realtà l’esatto contrario di quanto egli sostiene. Non vi fu alcuna “fertilizzazione reciproca” tra Greci ed Egizi, in quanto la fertilizzazione andò tutta in una sola direzione. Gli Egizi rimasero arroccati nel proprio orgoglioso equilibrio socio-politico, rappresentato dalla figura del Faraone, l’intoccabilità del quale era considerata la ragione ultima della prosperità del regno, e dai Greci non appresero nulla, né politicamente, né socialmente, né artisticamente, etc., che possa far pensare a una decisiva “fertilizzazione” a beneficio degli Egizi. Una vera influenza della Grecia sull’Egitto ci sarà solo diversi secoli dopo, quando l’Egitto divenne una monarchia ellenistica sotto i Tolomei.
In conclusione, se è certamente vero che gli scambi tra civiltà possono favorire la fioritura reciproca, è anche altrettanto vero affinché ciò avvenga si devono verificare certe condizioni, una delle quali è precisamente la presenza di una forte identità culturale in chi si lascia fertilizzare, al contrario di ciò che l’Autore sembra ritenere.