“Pupi siamo, caro signor Fifì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti. Dovrebbe bastare, santo Dio, esser nati pupi così per volontà divina. Nossignori! Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede d’essere. E allora cominciano le liti! Perché ogni pupo, signora mia, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentar fuori. A quattr’occhi, non è contento nessuno della sua parte: ognuno, ponendosi davanti il proprio pupo, gli tirerebbe magari uno sputo in faccia. Ma dagli altri, no; dagli altri lo vuole rispettato.” (tratto dal Berretto a sonagli di Luigi Pirandello)
Nelle parole di Pirandello tutta l’amarezza meridionale, quella stessa amarezza che non impedisce, però, di manifestare la volontà di continuare a battersi in quella che è stata definita “la più invisibile delle guerre invisibili”, quella che sosteniamo con noi stessi e i nostri ideali. E nell’Opera dei Pupi, le marionette, animate dai pupari, raccontano la favola di quelli che si battono contro le ingiustizie dei prepotenti. Una favola tutta siciliana di cui i paladini erano protagonisti, conti e baroni, splendenti nelle loro luccicanti armature e nobili per i valori alti che trasmettevano con le loro gesta, valori come la cavalleria, il senso dell’onore, la lotta per la giustizia e la fede che il popolo siciliano sentiva particolarmente propri.
Secondo la tradizione storiografica il teatro delle marionette era già noto nel ‘500 in Spagna, poi introdotto nel XVII sec in Francia per poi diffondersi in Sicilia e nell’Italia meridionale nei primi dell’800.
Pupi e pupari: le parole, qui, possono avere significati amari, e così, nella sua accezione negativa, il puparo è quello che muove i fili e decide luoghi e persone, vita e morte, in quel palcoscenico che è il teatro della vita, e controlla i pupi, i paladini, veri e falsi, quelli che si addobbano di pennacchi per scendere in piazza con quelli che la lotta alla corruzione la fanno davvero. Ci sono invece pupari che hanno rispetto per i pupi, quel rispetto che Ciampa chiede per sè. E questi pupari non strozzano i pupi, bensì danno loro voce e sentimento, raccontano le storie di paladini di oggi che dell’onestà e della legalità si sono rivestiti, come luccicante armatura. Angelo Sicilia è un moderno puparo: ha spogliato i suoi pupi di legno di spade e pennacchi e gli ha dato i volti e le sembianze degli eroi di questo tempo, dei morti ammazzati dalla mafia. Usa le parole e con queste riesco ad ottenere un silenzio ipnotico. Ha sostituito i canovacci della tradizione epico – cavalleresca con quelli che raccontano le gesta degli eroi siciliani, di quei valorosi che si sono ribellati al malaffare e alla corruzione ramificata.
“Ho sempre amato i pupi, fin da piccolo, quando vicino casa, vedevo Don Paolino, un vecchio artigiano che costruiva i pupi. Io lo osservavo affascinato per ore! Immaginavo le gesta eroiche di quei cavalieri grazie ai racconti di mio nonno sulla storia dei paladini di Francia. All’università quella passione era cresciuta così tanto da occuparmi di un progetto di ricerca legato alla storia del teatro dei Pupi per il Museo Pasqualino (Museo Internazionale delle Marionette a Palermo -ndr ). In quegli anni mi resi conto che l’Opera dei Pupi era morta il 3 gennaio del 1954 con l’inizio delle trasmissioni Rai; il pubblico della televisione era quello dell’Opera: aveva cambiato scatola! Bisognava recuperare quell’identità popolare e per farlo occorreva creare un nuovo repertorio per un pubblico nuovo. Bisognava adeguarsi ai tempi“. La sua voce rimbomba tra le sale del castello ( La Grua Talamanca, a Carini, in provincia di Palermo, dove oggi ha sede il MOPS, Museo Opera Pupi Siciliani –ndr ), mentre giù dal cortile arrivano le grida festose dei bambini che hanno assistito allo spettacolo. Era bello osservare i bambini, silenziosi ed entusiasti che applaudivano, con gli occhi sgranati e luccicanti ogni qualvolta si alzava il sipario come fossero nel paese dei balocchi. Anch’io ero rapita, incantata dalle loro facce stupite: non c’era differenza d’età tra noi, entrambi eravamo figli di un’epoca che ha dimenticato la magia dello spettacolo vero, fatto di bambole, di voce, di carta, stoffa e magia. Nell’Opera dei Pupi è tutto l’incantesimo del teatro: dove la finzione racconta di cose vere, dove i sentimenti sono intensi, anche se finti, dove le emozioni sono a tempo determinato ma indimenticabili.
Nell’esposizione permanente ci sono loro, i pupi, immobili, con i loro occhi fissi. Da Carlo Magno a Orlando e Angelica, dalla Baronessa di Carini a Garibaldi, fino ad arrivare, nella sala dedicata a Ninni Cassarà e Roberto Antiochia ( entrambi uccisi nell’agguato mafioso del 6 agosto 1985 –ndr) ai pupi antimafia: Falcone, Borsellino, Peppino Impastato, Padre Puglisi, Rosario Livatino e Pio La Torre sono i nuovi paladini, anche loro appesi e muti e tutti insieme vivi. Quasi a rispondere alle mie domande Angelo mi racconta dell’esperienza che lo ha segnato e che ne ha fatto un militante della lotta alla mafia: “nel 1986, ero appena un ragazzino, a San Lorenzo, il quartiere a Palermo dove abitavo, venne ucciso Claudio Domino, un bambino di 11 anni, probabilmente per avere visto chi trafficava la droga. Ne rimasi sconvolto!” -Angelo Sicilia racconta quel tremendo fatto che turbò profondamente noi adolescenti del tempo e non posso fare a meno di ricordare che da lì a pochi anni la nostra generazione, per la maggiore all’oscuro della realtà criminosa in cui viveva, avrebbe assistito alle peggiori nefandezze compiute da Cosa Nostra: “non mi riconoscevo nel paladino che uccide un cavaliere solo per il diverso colore della pelle! Non era un messaggio che volevo comunicare! Volevo raccontare degli eroi dei nostri giorni. Così nel maggio del 2002, in occasione del Forum Sociale Antimafia a Cinisi, andò in scena lo spettacolo dedicato a Peppino Impastato, rappresentato davanti alla mamma di Peppino. Portammo lo stesso spettacolo nel 2012 in Corea del Sud. Attraverso il teatro dei pupi riuscivo a coniugare il mio impegno civile e politico nella lotta alla mafia. Negli anni, poi, il ciclo dei pupi antimafia si è arricchito: dalla storia dei fasci siciliani e della strage di Caltavuturo, da Placido Rizzotto a Falcone e Borsellino a quelle del giudice Rosario Livatino e di Pio La Torre. Attraverso i pupi, i personaggi si avvicinano al pubblico, sono umanizzati. La storia della mafia è ormai storia contemporanea per questo anche il pubblico di tutte le regioni d’Italia, non solo siciliano, si identifica con grande partecipazione. I valori che cerchiamo di trasmettere sono universali. In queste rappresentazioni la messa in scena è piuttosto complicata, è necessario sintetizzare i fatti, io esalto l’aspetto umano di questi eroi, con le loro paure e ed emozioni. Un obiettivo che mi sta molto a cuore: contrastare i messaggi fuorvianti e pericolosi di certa tv, come né Il Capo dei capi, un prodotto diseducativo per l’immagine del boss mafioso, romanzata ed enfatizzata, di uomo potente e invincibile. I mafiosi sono recepiti come antieroi fermati solo da un arresto e da una galera che non ne alterano il potere, anzi ne costituiscono un incidente previsto. Nell’Opera dei Pupi la linea di confine tra bene e male è netta! Da sempre i paladini, antichi o moderni, rappresentano buoni e cattivi, e il pubblico esulta sempre per la vittoria dell’eroe!”