“Avanguardia”. Dovevamo esser già adulti agli albori del Novecento, per poter masticare questa parola: la musica, le arti visuali, la letteratura, il cinema, la politica. Poi l’abbiamo rimessa nella cassetta degli attrezzi, forse senza nemmeno l’aspettativa di riprenderla mano. E invece. “Torna la Cultura d’Avanguardia. Liberiamo i talenti dalla solitudine” è il manifesto programmatico della tavola rotonda dello scorso sabato 14 maggio al Teatro Franco Parenti in cui Stefano Parisi, candidato sindaco di Milano, ha parlato di cultura e progetti per far tornare Milano la città delle avanguardie. A partire dal basso. Numerosi gli ospiti e i relatori invitati, da Andrée Ruth Shammah e Corrado Passera al presidente della Triennale Claudio De Albertis, passando attraverso i vari settori della creatività come il designer Duilio Forte, il collezionista Giuseppe Iannaccone, l’architetto Pierluigi Nicolin, il critico d’arte Stefano Pirovano e il critico cinematografico Pino Farinotti, per una pluralità di contributi di fattività all’intento programmatico di un candidato sindaco che si appresta, magari tra poche settimane, al governo della città per costruire, insieme ai diversi animal spirits della creatività, una politica e una cultura liberale.
Una tavola rotonda che non ha significato necessariamente adesione politica, ma presenza matura e laica, in una dimensione più profonda di una “semplice” campagna elettorale, aperta a contributi trasversali per un confronto, senza fanatismi e partigianerie, sull’impostazione del problema cultura. Lavorare nella cultura significa cambiare la logica del lavoro nelle istituzioni pubbliche, liberandole dagli interessi politici per dare spazio all’attività di manager bravi che sappiano fare il mestiere fuori dalla logica dell’appartenenza politica. Obiettivo: cambiare il “vestito” degli spazi istituzionali aprendoli alle risorse private (attenzione: questo non significa privatizzarli) per massimizzarne l’efficienza, perché le persone che lavorano nella cultura devono essere aperte e motivate all’accoglienza in luoghi di benessere spirituale. Ma la cultura non si fa solo nei musei (e un buon assessore alla cultura non deve essere per forza il direttore di un museo, ma anche, perché no, un soggetto dalla capacità amministrativa intelligente e aperta), perché l’obiettivo è trasformare Milano in vero e proprio luogo di produzione della cultura contemporanea, anche e soprattutto fuori dai luoghi istituzionali, anche e soprattutto a partire dal basso.
L’obiettivo di fondo non è la Scala al Lorenteggio, ma una più generale (e impegnativa) riattivazione dell’attenzione culturale. La solitudine dei talenti al quale si riferisce il titolo della tavola rotonda è proprio questo: scovare nei quartieri, nelle strade, nelle scuole, nelle biblioteche e nei grandi spazi inutilizzati i talenti la cui capacità creativa è ora inficiata da un sistema autoreferenziale che ne blocca la crescita. La moda e l’arte, ad esempio, non devono più limitarsi all’eccellenza elitaria di una settimana per i buyers (vedi la settimana della moda, vedi il MiArt), ma divenire eventi popolari e fruibili dal più ampio pubblico possibile anche attraverso la sperimentazione dell’interdisciplinarietà fra ambiti creativi distinti ma non distanti (l’arte e la moda, per esempio). Come? Attraverso il coinvolgimento di risorse umane e produttive che sappiano generare, senza pregiudizi e condizionamenti, le condizioni affinché ciò avvenga. Perché la cultura è libertà.