17 milioni di Hitler

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Il risultato record per l’Hitlerino di Maurizio Cattelan, battuto ieri da Christie’s New York per 17 milioni di dollari, induce a qualche sommessa riflessione sull’art system e le sue virtù.

"Him", Maurizio Cattelan
“Him”, Maurizio Cattelan

Innanzitutto, dobbiamo esprimere il giusto orgoglio perché il Nostro Artista Nazionale ha surclassato Jeff Koons, il cui pallone da basket in equilibrio si è fermato alla modica cifra di 15 milioni di dollari.

Secondo, dedurre che il Nazismo tira sempre, come in modo surreale raccontava Massimiliano Parente nel suo romanzo Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler, il cui protagonista Max Fontana, esempio perfetto dell’artista concettuale, infilava sempre nelle opere qualche svastica così da tenere desta l’attenzione dei mass media. Terzo, ammettere che la comunicazione paga; non solo in questi giorni Cattelan – immaginiamo ad adiuvandum l’asta – ha riproposto una sua celeberrima installazione, l’asino vivo nel recinto, e sta preparando il water d’oro per il Guggenheim, ma nello specifico la scultura Him, realizzata nel 2001, dopo onorata e non troppo onusta carriera, era stata esposta nel 2012 al ghetto di Varsavia suscitando, ovviamente, un putiferio internazionale, con il risultato di amplificarne la notorietà.

Ma cosa si compra il collezionista quando acquista l’Hitler in ginocchio pagandolo 17 milioni di dollari? Si sta comprando il fantoccio che il solerte artigiano ha prodotto su indicazione di Cattelan, oppure si sta comprando l’idea di Cattelan, o l’aura che circonda il suo lavoro, o la sua firma, o il putiferio che ha suscitato quell’opera, o tutto insieme?

Certo, sempre meglio l’Hitlerino magari posizionato in un angolo del salotto, piuttosto che l’orribile rana rossa crocifissa di Kippenberger da appendere sopra il letto (venduta a un milione e 300mila dollari). Con ciò non si vuole esprimere e dio ce ne scampi un giudizio estetico sul bambolotto che rappresenta Hitler o sulla rana, o sul pallone da basket, o sulla foto dell’asino di Paola Pivi, che pure ha stabilito (217mila dollari) il best price per la fotografa italiana. Né si vuole insinuare che il manichino, nella posizione di penitenza o preghiera, possa o voglia o debba assolvere una qualsiasi funzione catartica rispetto agli orrori prodotti dal nazismo.

Se, costretti, dovessimo perorare l’arte che esiste solo in quanto idea o provocazione, fuori da ogni dimensione estetica o tecnica, allora sarebbe stato meglio comprarsi l’ampolla di vetro con l’aria di Parigi di Marcel Duchamp (solo 845mila dollari) o l’icona Dada della Gioconda con baffi, titolata dall’artista francese con sommo sberleffo L.H.O.O.Q. (lei ha caldo al culo), battuta ad appena un milione e 200mila dollari.

D’altronde nell’asta a tema Destinato a fallire, furbescamente curata da Loic Gouzer, erano sufficienti un paio di milioni di dollari per comprarsi un panetto di burro (in cera d’api) di Robert Gober e 280mila dollari per una porta con alcuni prodotti per la pulizia di casa, opera sublime del duo svizzero Fischli&Weiss.