Era il 1968, quando un certo Dante Virgili, che sino a quel momento aveva scritto soltanto una ventina di storie western per ragazzi con lo pseudonimo di Dean Blackwood, consegnò a Mondadori la bozza di un romanzo incredibile quanto disturbante. Assolutamente al di fuori dagli schemi della grande editoria dell’epoca. Dopo due anni di indecisioni e di discussioni interne, Mondadori diede alle stampe “La distruzione”, nella primavera del 1970.
Con una prosa a cavallo tra lo sperimentale ed il tradizionale, in grado di infastidire, innervosire; modellata sullo stile del “flusso di coscienza”, “La distruzione” fu una bomba inesplosa. Il suo contenuto, che narra i pensieri e descrive l’interiorità disturbata dell’autore stesso, s’incentra tutto sul disprezzo misantropico per il mondo che lo circonda, da parte di un individuo folle quanto geniale, ancora concretamente convinto della propria fede ideologica hitleriana, a partire dalla quale esprime tutto il proprio distruttivo disprezzo per il mondo a lui contemporaneo, di fronte al quale non solo anela la propria morte, ma giunge ad augurarsi una morte cosmica, una distruzione universale: l’olocausto nucleare.
Tra pulsioni sessuali sadistiche, espresse in linguaggio decisamente impudico, antiamericanismo, sfuriate vere e proprie in lingua tedesca, che d’improvviso nel testo squarciano il morbido italiano come una mitragliatrice dilania i corpi delle sue vittime, “La distruzione” avrebbe potuto essere un vero e proprio scandalo editoriale. Per i contenuti, ma anche per lo stile. In quel romanzo, Virgili, in maniera del tutto amorale, bruciava in un impeto nichilistico tutti i tabù della società che sorse dopo il secondo conflitto mondiale. Senza pietà alcuna. Eppure questo libro, che avrebbe potuto far deflagrare le librerie con il frastuono delle polemiche, passò tutto sommato sotto silenzio. Fu un insuccesso.
Dante Virgili, vero e proprio archetipo vivente della sconfitta e del livore che lo sconfitto ha per il vincitore, aveva di nuovo perduto. Lui, che viene descritto come fisicamente ripugnante, caratterialmente insopportabile, evidentemente afflitto da problemi psicologici, non riuscì nemmeno questa volta a poter comunicare tutta la propria rabbia al grande pubblico. Altro che nuovo Céline! In pochissimi si accorsero di lui. E forse non avrebbe potuto essere altrimenti. Forse era il destino di quell’uomo, del quale non esiste nemmeno una fotografia, l’oblio? Fu un ultimo tra gli ultimi, Virgili. Un escluso. Un emarginato, ma per sua stessa scelta e natura: un inattuale spaesato e rancoroso di fronte all’attualità. Di questa inimicizia assoluta nei confronti del mondo ne fece un’identità. Un uomo radicale e folle. Un genio. Un pazzo. Un sociopatico.
Ma col passare del tempo, “La distruzione” divenne pian piano un libro di culto. Indubitabilmente un capolavoro letterario, facente parte di quel ristretto gruppo di opere d’arte che mirano a disturbare, a colpire nel profondo, senza mai essere decorative o consolatorie; il romanzo di Virgili iniziò a riemergere dagli abissi in cui era caduto, suscitando l’interesse di intellettuali e letterati. Basti fare il nome di Gianfranco De Turris, ad esempio.
Ancora oggi, quelle vecchie copie stampate da Mondadori sono contese da collezionisti ed appassionati a colpi di diverse centinaia di euro.
Fu nel 2003 che finalmente Pequod, coraggiosa casa editrice, decise di salvare “La distruzione” dall’oblio e di ridarla alle stampe. Finalmente riuscendo ad ottenere un interesse maggiore, sebbene solo presso un pubblico limitato di intellettuali. Ma, ironia della sorte, Virgili questa rinascita non la poté vedere. Morì infatti nel 1992, a Milano, all’età di sessantaquattro stanchissimi anni. E nemmeno poté vedere la pubblicazione, sempre ad opera di Pequod nel 2008, della sua seconda opera nichilista: “Metodo per la sopravvivenza” (con una introduzione di Buttafuoco), precedentemente rifiutata, questa volta, da Mondadori.
Ma i capolavori, e “La distruzione” lo è, possono essere solo temporaneamente dimenticati. Godono di un’energia propria e sempre riemergono, come grandi e forti radici che dal sottosuolo ricacciano sempre nuovi germogli. Ed ecco infatti che ora, in primavera, questa pianta carnivora vede rifiorire ancora le proprie gemme. “La distruzione”, per la gioia di alcuni e per l’indifferenza dei molti, viene infatti nuovamente riproposta da “Il Saggiatore”, con una buona introduzione di Roberto Saviano, la quale purtroppo –va detto- è in realtà soltanto una rielaborazione di un articolo già redatto dallo scrittore campano per “Nazione Indiana” nel 2004. Quasi come se ancora in Dante Virgili non ci si creda troppo e non ci si voglia impegnare fino in fondo per la sua opera.
C’è da augurarsi dunque che, sia per “Il saggiatore”, che ha comunque operato una scelta coraggiosa e meritoria, sia soprattutto per “La distruzione”, questa sia la volta buona, e che di Dante Virgili si ricominci a parlare seriamente. Perché, anche se soltanto per quest’ opera, gli si dovrebbe attribuire il posto che merita: tra i grandi (incompresi) del secondo ‘900 letterario italiano.