Fu Gabriele D’Annunzio a soprannominare Mario de Maria, alias Marius Pictor, il «Pittore delle Lune», in riferimento ai paesaggi notturni o crepuscolari che questi prediligeva creare. Nato a Bologna nel 1852 da padre medico e collezionista d’arte, in una famiglia nobiliare che vantava un antenato violinista e direttore d’orchestra a San Pietroburgo e suo figlio famoso scultore di gusto neoclassico, Marius, abbandonati i primi studi musicali s’orientò in direzione dell’arte pittorica frequentando in maniera irregolare l’Accademia di Belle Arti del capoluogo emiliano. Sarà l’amicizia con l’artista Luigi Serra a fargli scoprire l’Arte del Quattrocento e il suo apparato simbolico e metafisico. Lasciata Bologna per Parigi approdò poi a Roma dove aperse il suo atelier in via Margutta partecipando al sodalizio artistico In Arte Libertas e creando alcune tavole per il Vate. Sul finire del secolo, dopo un breve periodo trascorso a Berlino con il plauso dell’Imperatore, nel 1892 si trasferì a Venezia con la famiglia trovandovi l’ambiente culturale favorevole allo sviluppo della propria visione artistica ed esponendo regolarmente alla Biennale fino al 1922, due soli anni prima della sua morte, continuando però a studiare i maestri antichi nei suoi viaggi attraverso l’Europa.
L’esposizione delle sue opere nel 1911 a Milano gli varrà l’aspro scontro con le avanguardie Futuriste che lo classificheranno come un “passatista”. Figura artistica a tutto campo, de Maria, svolgerà un ruolo anche come architetto, dimostrandosi così d’essere uno di quegli eredi del pensiero rinascimentale, eclettico e multiforme, tipico del ficiniano modello di Artista-Mago. Dopo alcuni lutti famigliari, Marius, si ritirerà in volontario esilio tra Asolo e Bologna dove terminerà i suoi giorni terreni, dimenticato da tutti. Il suo riferimento è dunque l’arte europea tra il XV ed il XVII secolo, con i suoi chiaroscuri e con le profonde ombre di un Rembrandt, manifestazioni tangibili quanto evanescenti d’una realtà “altra” e magica, talvolta sfumata di diabolico, che coesiste con la nostra vita quotidiana. Nascono così capolavori sottilmente inquietanti come La casa di Satana a Venezia o Il Mulino del Diavolo o il paesaggio metropolitano di Suspiria e il neogotico Il mercante di scheletri.
L’apparato dell’aggettivazione simbolica di de Maria è certo quello decadente e tardoromantico, ma evidenzia profonde conoscenze dei miti ancestrali dell’uomo come la Danza dei pavoni, retaggio del pensiero di Ruskin ma anche dell’angelologia gnostica. Venezia è il luogo dell’anima e del mistero, per Marius Pictor, la zona neutra dove s’incontrano le forze del male e del bene, a volte quasi indistinguibili come nel dipinto dal titolo Rosso di sera, dove non sappiamo se le figure che camminano lungo il ponte siano reali o fantasmi.
La sua pittura coniuga una realtà musicale affine a quella di Debussy, immersa nel perenne lucore di un mondo fatto di semitoni rembrandtiani sfumati di quella malinconia tanto cara ad Albrecht Dürer. Le visioni dell’artista non sono frutto di sogni né di allucinazioni ma reali riprese di momenti che egli stesso ha vissuto durante i suoi vagabondaggi notturni. Le influenze di Boecklin e Kaspar Friedrich sono evidenti, ma il Nostro le assorbe e rigenera in una sua espressione decisamente italica, latina e paganeggiante in un milieu cristianizzato da tempo. Raramente l’aspetto del sovrannaturale è manifesto nelle sue tele, quanto piuttosto suggerito, in una maniera che lo avvicinerebbe più a un Lovecraft o a Poe, ma proprio per questo esso è ancor più presente ed incombente. Rovine romane o calli veneziani diventano l’ambiente perfetto al manifestarsi di tali esseri venuti da un altrove che non sappiamo se sia infero o d’altra natura. Visioni di Selene, di frati orbati, addirittura immagini paesaggistiche di Mercurio e di Marte affollano la vasta produzione pittorica di de Maria con la presenza di quelle stesse crature alate che ritroveremo in successivi romanzi fantastici d’oltreoceano.
Così la sua opera e la sua stessa vita si stacca nettamente da quella dei suoi colleghi d’arte in quanto egli è contemporaneo agli antichi maestri che diffondono lungo i secoli il loro pensiero e il loro spirito. Alchimista del colore e dell’anima mutevole, Marius Pictor, sfugge alle analisi di coloro che mancano degli strumenti “iniziatici” per comprenderne la portata, così come è il dimenticato architetto di un hotel a Cortina d’Ampezzo, della facciata dell’Esposizione Internazionale d’Arte a Venezia e della sua peculiare villa alla Giudecca.
La sua immediata e grande fortuna di critica tuttavia sarà effimera, come spesso avviene ai grandi che sono “fuori dal tempo” e svanirà nell’oblio sostituito da altri, lasciando però di sé un profumo di bellezza perenne che certo Percy B. Shelley e William B. Yeats avrebbero amato, sapendo che «non c’è morte o mutamento».