Donald Trump, un Berlusconi senza “quid”…

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Official portrait of President Donald J. Trump, Friday, October 6, 2017. (Official White House photo by Shealah Craighead)

Donald Trump è davvero il Berlusconi d’oltreoceano? Una sorta di Cav. a stelle e strisce? Assolutamente sì, stando a quanto scritto da alcuni autorevolissimi commentatori che, perlopiù, costruiscono la loro teoria argomentandola con questioni fondamentali quali la guasconeria, il vil danaro, un malcelato maschilismo e, udite udite, «un tormentato rapporto con i loro capelli». Addirittura. Dunque, se è vero che entrambi nutrono una certa avversità per il politicamente corretto, va altresì osservato che Berlusconi non si candidò alle primarie di un partito già esistente ma che, nel giro di un pugno di settimane, riuscì in tre imprese in un sol colpo: fondare un soggetto politico che si classificò subito primo, mettere insieme la coalizione (anzi, le coalizioni) con cui vinse le elezioni e, di conseguenza, impedire la presa del potere da parte della sinistra post-comunista.

Dal punto di vista del marketing elettorale si trattò di un vero e proprio miracolo, che vide nell’ex Cav. la figura capace, per almeno tre lustri, di calamitare attorno a se una mole impressionante di consensi che ne fecero – al netto di successi e insuccessi – il protagonista assoluto della scena politica. Altrettanto non possiamo dire di Trump, la cui candidatura più che una discesa pare un’invasione di campo, per molti aspetti estemporanea e fine a se stessa. Quindi, se il berlusconismo esiste, in parte ancora resiste e tra qualche anno si rimetterà alla sentenza (assai ardua) dei posteri, del trumpismo, battute e slogan a parte, non c’è traccia.

Un grande merito, però, al costruttore americano bisogna riconoscerlo, ed è quello di aver messo a nudo i grandi limiti della pattuglia composta dagli attuali aspiranti alla nomination del GOP (il partito repubblicano) per le elezioni presidenziali da cui uscirà il successore di Obama. Se Scott Walker e Rick Perry hanno abdicato ancor prima di cominciare Jeb, il terzo aspirante presidente di casa Bush, pare proprio difettare di quel “quid” di berlusconiana memoria che gli consentirebbe di far breccia nel cuore di quell’elettorato repubblicano che dimostra di non gradire, giusto per fare un esempio, le sue posizioni “eccessivamente morbide” in merito all’immigrazione clandestina.

D’altra parte, nonostante la buona performance nell’ultimo dibattito, l’ex ceo di Hewlett Packard Carly Fiorina, più che alla vittoria finale, sembra destinata a giocarsi la candidatura come vice con i vari Carson, Cruz e Rubio. Già, ma vice di chi? In molti, dalle parti di Washington, sostengono che la vera corsa alla nomination repubblicana comincerà solo dopo l’eventuale uscita di scena di Donald Trump così come, tra i democratici, in molti non vedono l’ora che l’attuale vicepresidente Joe Biden scenda in campo spazzando via, in un sol colpo, sia la Clinton che Sanders, due candidati che, per motivi diversi, non sono mai stati digeriti dai vertici del loro partito.