
Da antologia. L’icona di Alessandro Manzoni, severo, ruvido, ma con una foggia vagamente scapigliata che ricorda un James Dean lombardo, l’ha segnata, lo sanno tutti, Francesco Hayez, nel fatidico Ritratto del 1841 ora in Brera. Alle spalle del quadro, che costò allo scrittore quindici estenuanti sedute, c’è la seconda moglie di costui, Teresa Borri, amica intima di Hayez, e l’unico figlio avuto dal precedente matrimonio della nobildonna, Stefano Stampa. La Borri, donna piuttosto colta, rimasta vedova a vent’anni, fu dipinta da Hayez, con castigata cuffietta, nel 1847; ben più bella, con capelli in crocchia e riccioli cadenti sulla fronte, appare nel Ritratto di gruppo della famiglia Borri Stroppa dipinto da Hayez nel 1822 e anch’esso nella Pinacoteca di Brera. Tra le sue gambe, intento a disegnare, c’è lui, “Steffanino: quant’è interessante, quanto gentile, vago e simile!”, scrive, lei, al sublime pittore.
Il giovane Stefano Stampa, che lo storico dell’arte Fernando Mazzocca ha riconosciuto nella Testa di ragazzo del consueto Hayez, del 1820, ci dà con lo stilo fin da piccolo. Intuendone il talento, la mamma lo manda a studiare da Massimo D’Azeglio e poi dal medesimo Hayez. Ora, alla luce del restauro di Casa Manzoni val la pena tracciare il profilo di Stefano Stampa, anche perché da pochi giorni un collezionista di Domodossola ne ha rinvenuto una nuova opera: un paesaggio romantico con stuolo di cavalieri, dipinto secondo i modi di D’Azeglio. Più che altro è interessante il retro del quadro, che denuncia l’autografo, “Studio del Conte Stampa figlioletto di Alessandro Manzoni”. Decisiva la data del quadro, il 1837, l’anno in cui la mamma di Stefano va a nozze con lo scrittore de I promessi sposi; li dividevano quasi quindici anni.
Stefano Stampa, che in alcuni dagherrotipi parigini degli anni Quaranta dell’Ottocento ha la barba da moschettiere e la posa da ‘maudit’, stimava il patrigno, tanto da farsi chiamare (così anche nel carteggio edito curato da Ezio Flori) il figliastro del Manzoni. Con il sommo scrittore intratteneva rapporti informali (in campagna, sul Lago Maggiore, gli passava le bretelle, “ho tante bretelle, papà, ve ne regalo tre o quattro paia”), insieme furono al capezzale di Antonio Rosmini (il cui Ritratto, compilato dal solito Hayez nel 1853, fu commissionato da Stefano). Quando Teresa Borri (la cui presenza al fianco del Manzoni “corrisponde a un suo ritorno di facoltà espressive”, come ha scritto Paolo Chiara) morì, nel 1861, Stefano Stampa la ricordò come “un padre severissimo, una madre tenerissima”, ma, eletto erede universale, rifiutò di chiedere al Manzoni ciò che gli era dovuto, cioè la dote della defunta.
Stefano amava il Manzoni, ma non la sua fittissima famiglia: a Milano preferiva le escursioni in campagna, “solo, nella contemplazione della natura e co’ suoi fantasmi”, scriveva la madre, già nel 1838, a dipingere nei boschi. Morta la madre, si accompagnò con la cameriera di lei, che spirò nel 1904. Tre anni dopo, se ne andò pure lui. Nel Fondo Manzoniano della Biblioteca Braidense di Milano un dagherrotipo ritrae il Manzoni di profilo, severo, con i basettoni che sembrano nuvole. Siamo nel 1852, a realizzare l’immagine è Stefano, appassionato di fotografia. Per penetrare nelle grotte emotive del Manzoni, bisogna studiare i personaggi di contorno. E leggere il mirabile romanzo di Mario Pomilio, Il Natale del 1833, prossimamente riedito da Bompiani.