La grande cinematografia italiana ha un’origine moderata e un papà moderatissimo, Giulio Andreotti anche se poi, come per altri ambiti culturali, i pregiudizi ideologici della sinistra massimalista hanno rovinato anche cinema e attori, come il pugno (destro!) alzato da Elio Germano dimostra in modo sconfortante.
Il deprecato Andreotti con leggi del 1948 e del 1949 ottiene che i proventi dei film americani siano utilizzati per la produzione di film nazionali e introduce incentivi e credito agevolato per il settore. Luigi Bisignani ha testimoniato la sua passione per il grande schermo: “Amava ripetere che l’Italia è il set cinematografico ideale, il migliore del mondo”. Ci è voluto il critico Tatti Sanguinetti per riconoscere, in occasione dell’uscita del suo docu-film al festival del cinema di Venezia, i meriti di Andreotti, sottraendoli all’oblio. Eppure già un comunista a tutto tondo come Carlo Lizzani ha spiegato, tra l’altro proprio a «Il Giornale», il valore dell’ex leader Dc.
Andreotti offre all’arte cinematografica un’occasione di libertà e di rinascita. È lui che, nel 1948, fa riaprire Cinecittà, animato da un interesse ben più elevato che dispensare clientele. Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo, contrasta la nascente egemonia culturale del PCI e diviene protagonista della prima e ultima coraggiosa operazione culturale operata da un moderato in quel settore. Giovanni Sedita lo descrive nel saggio “Giulio Andreotti e il neorealismo. De Sica, Rossellini, Visconti e la guerra fredda al cinema”. Il Divo spende la sua autorevolezza contro un certo modo, ideologico, di intendere il neorealismo e conduce una battaglia in nome del pluralismo, visto che l’ambiente cinematografico si avvia nel frattempo verso un monopolio di marca comunista.
* autore de «Il brutto anatroccolo. Moderati: senza identità non c’è futuro» (ed. Lindau)
07/09/2014