“Troppo forte”. Sordi non doveva fare il mio film!

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E’ l’unico Italiano in giuria alla mostra del Cinema di Venezia (ci torna dopo 14 anni), ed è anche il vincitore del premio Bresson. Con Carlo Verdone la mostra omaggia più che un personaggio, un genere, il comico, che è una risorsa fondamentale quanto sottostimata del cinema italiano.

Ed ecco l’intervista che Verdone ha rilasciato qualche tempo fa a ilgiornaleoff.it. In cui, tra l’altro svela un rapporto artistico un po’ complicato con il suo maestro di comicità: Alberto Sordi.

Attore, regista, sceneggiatore. Nel 1977 esordisce in teatro con Tali e quali e Rimanga fra noi presso il teatro Alberichino. Sarà il fortunato varietà di Enzo Trapani Non Stop del 1978 a decretarne il successo. Poi, l’incontro con Sergio Leone, decisivo per la sua carriera di regista. Verdone è un simbolo per i romani e non solo, un mito per diverse generazioni.

“Presto, presto che devo partire per Toronto!” È comunque docilissimo, disponibile all’intervista.

Carlo Verdone Quando ha capito di avere quello straordinario talento che ha?

Alle medie. Ero un pedinatore di personaggi. Ho capito abbastanza presto che un particolare tic, un certo tipo di voce un carattere, un dettaglio, faceva il personaggio.

I primi passi?

In una cantina buia e umida di Via Cavour nel 1971. Durante la rappresentazione di un “Rabelais” si ammalano tre attori. Decido di entrare in scena e sostituirli tutti. Mi sono pure travestito da donna! Voglio ricordare il teatro dei burattini di Maria Signorelli che è stato molto importante. Facevo, davo la voce a molti pupazzi. Era un teatro non solo per bambini, era per tutti. E poi per iniziare a fare teatro e rivolgersi ai bambini devi essere chiaro, diretto, ti devono capire.

Oggi il pubblico è cambiato. Che pubblico è?

Adesso vedi una marea di gente attaccata al tablet!

Nel suo ultimo film, “Sotto un buona stella”, c’è una scena dove, chi dovrebbe esaminare il talento di un ragazzo è perennemente al telefono. È così?

La realtà oggi supera la fantasia. Io pensavo in quella scena di far ridere evidenziando la volgarità, la superficialità dei personaggi. Ma è una scena tragica! Poi al pubblico hanno tolto i cinema!

In che senso?

È la faccenda dei cambi destinazione d’uso. Io programmavo un cinema a Trastevere, il cinema Roma. Veniva tanta gente. Era un pubblico colto, di nicchia. Programmavo Zanasi, Baldoni. Poi con la crisi l’hanno chiuso. Ci stiamo battendo per tanti cinema nella Capitale: il cinema Etoile, il Corso, il Metropolitan, l’America. Se pensi cos’era il Cinema Capranica! Adesso che è? Ci fanno eventi. È un centro congressi. Che tristezza!

In giro per Roma si trovano ancora dei suoi personaggi attuali nonostante siano passati trent’anni. Ci sono ancora i fricchettoni buoni che dicono: “è il bene che vince e il male che perde”

Ma quelli erano figli degli anni Settanta/Ottanta. A Roma era pieno! Si caricavano di frasi fatte, di occupazione giovanile, ripetute, sentite per strada, all’Università. Avevano un pregio: erano tutti diversi tra loro. Oggi il guaio è che so’ tutti uguali, conformati: le stesse basette, lo stesso look, lo stesso telefonino.

Che rapporto ha Verdone con la critica? Mi fa l’identikit di un suo detrattore?

Un identikit del detrattore? Beh, meno male che non piaccio a tutti. Quando uscì “Bianco Rosso e Verdone” ci fu il critico di allora di Repubblica se non ricordo male, Renzo Fegatelli, che scrisse dei personaggi del film, cito testualmente: “ma che ci fanno quei tre cretini sull’autostrada?” Valerio Caprara invece ne scrisse bene, sostenendo che il film lo aveva convinto più del precedente “Un sacco bello”. Il critico deve fare la critica. Non mi piace quando entra nel merito di un piano sequenza, facendoti capire, mentre scrive, che lui l’avrebbe fatto in un altro modo. Mi sembra che certi critici vogliano sostituirsi all’autore e questo non lo trovo giusto.

Cosa non perdonano a Carlo Verdone?

Il percorso che ho fatto. Il mio passato televisivo. Secondo loro uno come me non può fare un film d’autore come “Compagni di scuola” venendo dallo sketch del varietà televisivo.

Ci descrive uno di quei pomeriggi a casa di Sergio Leone quando prendeva lezioni di cinema?

Mi aspettava a casa sua. Faceva un caldo. Lui c’aveva una camicia marocchina, una grande barba, la fronte che grondava di sudore, i suoi grandi occhiali esagonali dorati e mi fissava. Dopo un po’: “Io non capisco ancora perché me fai ride!” Leone mi ha insegnato tutto. Anche come gestire la troupe psicologicamente, far star bene i collaboratori, arrivare sempre prima… Poi, in montaggio, certe cose che piacevano a me non piacevano a lui, mi prendeva a calci nel sedere. Lo ringrazio tanto.

Un altro grande che hai dovuto dirigere: Alberto Sordi. Ma in “Troppo forte” non era esagerato?

Sordi non doveva fare il film. Io volevo Leopoldo Trieste per il ruolo dell’avvocato. Poi, il produttore del film, non so, cose loro, forse un contratto rimasto in sospeso, mi chiama e mi fa: “il film lo fa Sordi!” E io: “ma non c’entra niente!” Abbozzai. Dovetti abbozzare con Sordi e lui fece di tutto per far ridere ancora. Aveva un paura matta di non far ridere più, di venire scavalcato da questa ondata di nuovi comici. S’è messo a fare la voce di Oliver Hardy, quei gesti strampalati quel : “di di da da…” Il personaggio me l’ha rovinato! Non parlo volentieri di quel film, anche se so benissimo che i miei fan lo amano per tutta una serie di assoli: la palude del caimano, l’anaconda, il flipper, per me rimane un episodio, un compromesso. Se io mi mettessi a rifare alla mia età, continuamente le voci dei miei personaggi di trent’anni fa direbbero: ma che fa Verdone? È patetico.

Teatro no?

Teatro no. È una grande fatica. Mi ricordo all’Eliseo nel 1980. Ho fatto “Senti chi parla”. Uno spettacolo dove facevo 26 personaggi! E ogni sera cercavo di cambiare voce, aggiungere una cosa, sperimentare un dettaglio. C’avevo le sedie aggiunte! Una sera vedo una sedia vuota. Avevano rapito Barbara Piattelli (figlia di un industriale romano, rapita nel gennaio del 1980). Teatro basta, non fa per me. Ci vuole un’energia spaventosa.

In teatro si prova fino allo sfinimento. Quanto prova sul set le scene comiche?

Poco, io cerco di farle al primo ciak. Non devono diventare meccaniche, si perde tutta l’estemporaneità.

Progetti?

E che ne so? Stiamo a fare delle riunioni con Pasquale Plastino che è uno sceneggiatore. Io devo rispettare delle scadenze con il mio produttore De Laurentiis. Dobbiamo capire, qui ognuno dice la sua!

Dove trova ispirazione?

Dalla realtà, dagli umori, dai tic, dalle mode. È un discorso che si dovrebbe approfondire. Nel film “L’amore è eterno finché dura” ho raccontato gli speed date: quegli incontri di sessanta secondi dove dovresti stupire una donna e portartela a casa. Ho raccontato di padri, padri separati che vivono nella stessa casa perché non c’hanno i soldi, l’emergenza economica che riguarda i giovani e i meno giovani. Io mi guardo intorno e cerco di intercettare. Altrimenti la commedia che funzione ha se non è una cronaca?

(Squilli insistenti di telefonino in sottofondo. Impazzano le suonerie)

“Adesso la devo proprio salutare. L’ho detto che devo partire per Toronto? Abbiamo fatto un miracolo! Daje!”