Tra selfie e mutandoni: ecco perché odio l’estate

0

Adesso provate a dirmi cosa c’è di bello nell’estate. Spiegatemelo, perché io non l’ho mai capito. La temperatura che si alza, l’umido che appesta e impesta, come uno strato di grasso di foca sulla pelle. Le camicie che si appiccicano, la fronte madida di piccole gocce di sudore e la gravità che le precipita giù. Fin qui basterebbe un condizionatore. Favolosa scoperta tecnologica che sottolinea, ancora una volta, la perfezione di una natura cattiva e assassina. Una natura che l’uomo deve combattere, non stupidamente assecondare. Perché il caldo, è un fatto di cronaca, falcidia più pensionati delle leggi dello Stato italiano. E a Montecitorio sono molto competitivi.

La cosa più delirante è però la gran cassa della retorica estiva: ovvero i social network. Proprio in questi luoghi metafisici dell’esibizione pubblica che si manifestano i tic canicolari in tutta la loro mostruosità. “Selfo (prima persona, presente indicativo di selfare, verbo inventato alla bisogna) dunque sono”. Posso anche essere sulla spiaggia di Saint Tropez abbracciato ad Emily Ratajkowski (Dio lo volesse!), ma se non mi faccio un selfie e non lo pubblico su qualche social network è come se tutto non fosse mai accaduto. Anzi, le vacanze non sono vacanze, sono solo set fotografici, teatri di posa in cui ambientare gli scatti con i quali inondare la rete, curriculum vitae della propria bellissima vita.

Il selfie estivo è l’acme dell’esibizionismo vacanziero. Il momento in cui si rimane in mutande diventando caricatura. Partiamo dagli slip. Perché tutto ruota attorno alla nudità. Che nei rari momenti in cui s’incrocia con la bellezza è un capolavoro. Ma quando si scontra con la bruttezza è un incidente mortale. Gambe spelacchiate, seni cadenti e pance enormi che stanno su, contro ogni legge della fisica. Almeno una volta c’erano le diapositive delle vacanze, tu lo sapevi e dopo cena ti inventavi una scusa, un malore, un impegno e te la davi a gambe. Adesso la foto del tuo commercialista in mutande t’insegue e ti fotte: salta fuori tuo malgrado, si manifesta nella timeline di Facebook quando meno te lo aspetti. Poi c’è quella, sui cinquanta abbondanti, che con la scusa di fotografare l’orizzonte piazza davanti all’obbiettivo le sue natiche flaccide coperte da un microscopico costume. E poi dissimula, fa la vaga. Finge distrazione e scrive una didascalia da National Geographic: “Capri, luglio 2014”. Fortunatamente qualcuno commenta: “Ah, ci fai vedere il culo”. Puntuale arriva il controcommento stupito: “Oddio dici che si vede il culo?! Io volevo far vedere i Faraglioni”. Piccolo puntino all’orizzonte, i Faraglioni, in proporzione uno a cento con i buchi della cellulite. E in questo caso ci addentriamo nell’esplorazione del belfie, contorsionistico selfie al lato b.

Per non parlare dello sportivo. Quello che va in spiaggia con quattro scaffali di Decathlon al seguito, che si lancia sopra vecchiette osteoporotiche giocando a racchettoni, che decapita bambini col frisbee e tramortisce ignari passanti con palloni calciati a velocità estreme. Tutto a favor di fotocamera, perché l’attimo preciso, quello del bicipite tirato, della rovesciata circense e della schiacciata acrobatica, deve essere subito condiviso. Sublimato in uno scatto che ne decreti l’esistenza. Poi c’è il selfie ortopedico. In questo caso i piedi, e le gambe, sono la cornice del mondo. Tutto si incastra lì in mezzo. Un po’ una metafora del mondo. In questo periodo, per esempio, medici e sociologi si stanno accapigliando nell’analisi del “bikini bridge”, ultima mania per chi ama autofotografarsi. Il bikini bridge è il ponte che il costume crea appoggiandosi tra un’anca e l’altra, quando si è sdraiati in spiaggia. Condizione necessaria per l’edificazione di quest’opera architettonica è la magrezza. Meno carne si ha e più le anche fungono da tiranti e il bridge si tende. Una follia che più che preoccupare dietologi e nutrizionisti dovrebbe allarmare gli psichiatri.

Dipende sempre da chi è il soggetto, ovviamente, l’orrido del ridicolo è a un passo. Come nelle foto pseudo erotiche. Che impressionano lo spettatore più che la pellicola. Anche il selfie ha la sua grammatica ed esattamente come la lingua italiana patisce sofferenze quotidiane. C’è chi si è avventurato in una sua fenomenologia e chi ha stilato un decalogo dell’autoscatto perfetto (perché poi, alla fine, pedestremente, si traduce così) e l’Oxford Dictionary l’ha consacrata parola dell’anno, con un incremento della popolarità del 17mila per cento.

Capolavoro di pacchianeria. Sublime opera kitsch, luce per gli occhi visionari e ultracentenari di Gillo Dorfles. In questa categoria si possono derubricare i selfie dell’ostentazione economica. Quelli dei Nabucodonosor di champagne sbadatamente adagiati sulla sabbia, dei rotoli da cinquecento euro in bella vista e degli yacht chilometrici illustrati di bellissime donne in tenuta adamitica (per farsi un’dea dare un’occhiata al profilo “Rich kids” su Instagram).

Insomma, l’estate è anche questo. Propellente per ostentazioni mostruose. Persino quel genio mediterraneo di Battiato quando dedica una canzone all’estate, “Summer on a solitary beach”, non può esimersi da una tragica richiesta: “Mare, mare, mare voglio annegare, portami lontano a naufragare… Via, via da queste sponde…”. La nemesi dell’estate è la scomparsa lenta nelle fresche acque. Anche la Venere Anadiomene, di fronte allo spettacolo ordinario dei villeggianti sui litorali, non uscirebbe dalle acque e manderebbe a quel paese Apelle.

Vuoi mettere l’autunno, l’inverno e persino l’inizio della primavera? I refoli freschi e frizzanti che si insinuano tra la pelle e i vestiti, la pioggia che cade e costringe a improvvisati abbracci sotto l’ombrello, la nebbia intima che ottunde e placa, le nuvole che come paralumi damascati attenuano il sole, la notte coi suoi vizi che ti viene incontro a metà del pomeriggio e poi la neve, che pulisce tutto.

Va bene, ora vado al mare. A farmi qualche selfie.