Scultore visionario, pittore manierista, outsider per scelta: un viaggio nel laboratorio segreto dell’ibrido
Nel silenzio quasi ascetico del suo atelier a Tortona, Claudio Magrassi plasma figure che sembrano uscite da un sogno disturbante o da un rito arcaico. Ex orafo, oggi pittore e scultore manierista con un’anima postpunk-surrealista, Magrassi dà forma a un immaginario potente e borderline, dove sacro e profano, bellezza e mostruosità, umano e animale convivono in un equilibrio inquieto. Le sue opere, che ricordano il tormento di Bacon, la teatralità di Caravaggio e l’estetica visionaria del fumetto europeo, non cercano mai il compiacimento: sono esorcismi visivi, visioni a occhi aperti, apparizioni che invitano a guardare dentro l’abisso, senza cedere alla paura.
In questa intervista di Jacqueline Ceresoli ci racconta il suo percorso, il rapporto con la luce, la metamorfosi, l’ossessione per l’ibrido e la necessità di una sincerità espressiva che rifiuta l’artificio. Un dialogo sincero con un artista che, lontano dalle logiche di mercato, continua a produrre arte che inquieta, affascina e interroga (Redazione).
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Hai studiato l’arte antica. Quanto ha inciso nella tua ricerca artistica e perché?
È stato fondamentale per il raggiungimento di una sincerità espressiva in grado di esprimere nel profondo lo stilema di cui avevo bisogno.
Sei un orafo che ha deciso di dedicarsi totalmente all’arte. Quanto ha inciso questa tecnica sul tuo lavoro?
Mi ha aiutato nella costruzione di strutture metalliche per le sculture, allenando anche l’occhio al dettaglio e alle proporzioni. È stata una scuola di precisione.
Quando hai esposto per la prima volta? Quali soggetti? Come andò?
Verso la fine degli anni ’90. Esponevo dipinti di ispirazione gotica, contaminati da fumetti horror e cinema espressionista tedesco. Era tutto molto istintivo, non ricercavo un successo ma una necessità di mostrare.
Dall’iperrealismo ai mondi onirici: cosa rappresenti nei tuoi dipinti?
La realtà non basta. L’arte è sincera quando va oltre, quando mostra ciò che non esiste ma che sentiamo nel profondo.
Come sei passato dalla pittura alla scultura in bronzo?
La scultura è stata il mio primo amore. Nel 2018 ho iniziato a modellare volti distorti, mezzi busti: un ibrido tra il classico e la modifica genetica. È stato un ritorno necessario.
Che rapporto hai con l’arte sacra?
Viscerale. È un dialogo profondo tra preghiera e provocazione. Quando la rappresento sento una vulnerabilità creativa che mi spinge oltre.
Mescoli iconografie medievali con illustrazioni alla Moebius. Come nascono queste contaminazioni?
Le visioni dormiveglia, la pareidolia, i fumetti anni ’70-’80 (Moebius, Liberatore), il cinema (Del Toro, Kubrick, Lynch): tutto confluisce in un immaginario al limite della paranoia, ma profondamente mio.
Preferisci dipingere o scolpire?
Entrambi. Ma la scultura mi porta sul confine tra reale e immaginario, dove davvero prendo dalla vita per trasformarla.
Come nasce un’opera?
È un’accensione improvvisa, un’epifania. Non progetto, lascio che le visioni prendano il sopravvento.
Come sai quando un’opera è finita?
Quando si consegna agli altri. In quel momento smette di appartenermi, e io posso iniziare qualcosa di nuovo.
Perché i tatuaggi sulle sculture?
Perché sono segni antichi e moderni al tempo stesso, rivelano chi siamo. Sono stigma, memoria, identità.
Cosa vuoi esprimere con le tue creature post-umane?
Che stiamo mutando. Le mie figure sono passaggi, soglie tra umano e animale, un modo per accogliere il diverso senza paura.
Ti sei mai allontanato dalla figurazione?
Mai del tutto. Anche quando astraggo, parto sempre dal corpo.
Qual è il ruolo della luce nel tuo lavoro?
Fondamentale. Come per Caravaggio o Bacon, la luce svela la verità, anche la più disturbante. È lo strumento con cui armonizzo i contrasti.
Come nascono le tue creature aliene, papi demoniaci, ibridi?
Istinto puro. A volte guardo un volto che ho scolpito e non so come ho fatto. È come svegliarsi da un sogno potente.
Quali scultori contemporanei ammiri?
Grzegorz Gwiazda, Felipe Alonso.
Vivi del tuo lavoro senza il supporto di gallerie. Come fai?
Collezionisti privati che credono in me. Il passaparola è stato il mio canale più solido.
Tortona: isolamento creativo o limite?
Entrambi. La solitudine mi serve, ma mi manca un dialogo diretto con gallerie affini. Un giorno potrei spostarmi.
Corpi femminili o maschili: cosa ti ispira di più?
Entrambi, e oltre. Le ibridazioni mi permettono di fondere generi e creare nuove forme sessuate.
Disegni da foto o a memoria?
Disegno poco. Preferisco la memoria e l’immaginazione. Esagero i difetti, li porto in primo piano.
Che ruolo ha il disegno nella tua ricerca?
Importante ma non sempre necessario. Se un’opera nasce dal corpo, a volte bypassa il disegno.
In quale film vorresti vedere le tue sculture?
Nei mondi di Guillermo del Toro, Peter Greenaway, Jaime Balaguerò.
Usi l’Intelligenza Artificiale per creare le tue figure?
Mai! Le mie opere sono completamente fatte a mano. Il difetto è un valore.
Come comunichi il tuo lavoro senza un sito?
Passaparola e collezionisti. Ma presto realizzerò un sito ufficiale e sarò presente su piattaforme d’arte online.
Il tuo peggior incubo, che forse domani dipingerai?
Non sono incubi. Sono visioni che mi aiutano a esorcizzare il male. Le rappresento con distacco, come se fossi uno spettatore.