“Tocco il cielo con le dita” è la mostra di Pino di Gennaro, a cura di Jacqueline Ceresoli, visitabile alla Galleria Previtali di Milano fino all’11 gennaio 2025.
L’opera dell’artista pugliese può essere letta come un’esplorazione avventurosa della materia, derivata sicuramente dal suo “tirocinio”, in decenni più o meno lontani, presso Alik Cavaliere e Arnaldo Pomodoro, da cui ha mutuato, senza tuttavia diventarne epigono, la capacità di condurre il bronzo su alti livelli di espressione poetica.
“Tocco il cielo con le dita” è un momento di sintesi rispetto alle opere realizzate dal 2000 ad oggi, da cui possiamo ricavare un interessante gioco di variazione e di persistenza linguistiche. Difatti, pur utilizzando materiali molto diversi – appunto, cera, bronzo e cartapesta – Di Gennaro punta soprattutto a una forte coerenza visiva, procurata da soluzioni come il coinvolgente blu Klein o le nuance naturali del metallo.
In mostra sculture di diversa tipologia, che si adattano all’habitat dello spazio espositivo, dai minuscoli pannelli in cera fino agli esili totem esposti nel livello ipogeo, che accoglie anche numerose opere a muro. Eh sì, sono proprio la conformazione e l’esiguità dimensionale dei locali a coinvolgere l’osservatore in un rapporto micro-immersivo con l’opera, poiché crea un contatto ravvicinato e inatteso tra le due entità.
È in questa circostanza che si crea una relazione diretta ed emozionale con la bellezza intramontabile del bronzo, con la texture primitiva della cartapesta o con l’affascinante grammatica, dai sentori aztechi, che invade le diverse serie. La prima percezione è quella di un’arte dialogica, capace di innescare con il fruitore un rapporto dialettico e interattivo, nonostante le opere posseggano un’identità centripeta e materiale.
I lavori di Di Gennaro appaiono come feticci di un immaginario evoluto, dotati di alto gradiente concettuale. Questo aspetto è rintracciabile con maggiore energia nella Foresta nomade, un ensemble di esili totem alloggiati tra pavimento e la volta in mattoni, tra immanenza e spirito.
Come afferma Ceresoli, l’artista «esplora e conquista geometrie ascensionali, foreste segniche con tensioni tattili e materiche alla ricerca di nuove spazialità che orientano lo sguardo verso l’alto, trasformando la materia per evocare significati profondi della natura, come parte integrante di un cosmo più ampio… quasi totem antropomorfi, [che] invitano a ripensare il mondo con una nuova prospettiva: sopra, gli alberi che svettano verso il cielo, e sotto, al posto della terra, un blu oltremare che si intreccia in forme che sfidano i limiti dell’esistenza».
Gli “alberi” diventano ancor più significativi e significanti proprio nel diventare installazione site-specific, ovvero rapportati alla sede espositiva. Qui divengono la trasposizione della pluralità dell’esperienza umana, diventando ambiente segnico e simbolico.
Se l’opera a muro può essere considerata singolarmente, qui le sculture diventano artefici di una modulazione dello spazio: disegnano un ritmo, dilatano lo spazio sia concettualmente che in senso disciplinare, poiché l’arte diventa progetto. L’artista disegna una sorta di cripta, un luogo di riflessione ascetica sul senso della vita. Lo spazio è a misura individuale, ma l’osservatore è indotto a cercare ulteriori spazialità verso il cielo e verso il profondo della terra.