Elio Fiorucci è stato sicuramente un personaggio chiave della moda italiana, un milanese con uno sguardo cosmopolita, attento alle trasformazioni della società, dei consumi e degli stili, che ha sintetizzato in una visione della moda originale, ottimista e soprattutto pionieristica. A nove anni dalla sua scomparsa, in concomitanza con il rilancio del marchio eponimo, una mostra curata da Judith Clark alla Triennale di Milano ripercorre il viaggio creativo di un personaggio che sarebbe troppo riduttivo definire “stilista” o, peggio, “imprenditore” nel settore dell’abbigliamento giovanile. La sua è stata principalmente la visione di un’epoca espressa attraverso vestiti e oggetti, in una chiave – paradossalmente – più estetico-sociale che produttiva.
A partire dalla fine degli anni ’60, mentre i colleghi del fashion system milanese andavano affermando un proprio linguaggio coerente e identitario, Fiorucci elaborava lo sciame di stimoli provenienti dal mondo giovane del capitalismo avanzato, cogliendone la parte più “sana” e allegra. È stato pioniere dello streetwear, ma anche di quella trasversalità che avrebbe informato la creatività tipica dell’inizio del millennio successivo. Fiorucci ha rappresentato un mondo, una filosofia di vita tradotta in migliaia di icone appoggiate su un denominatore democratico. Fortunatamente la sua visionarietà ha potuto avere una effettiva concretizzazione in capi d’abbigliamento, accessori, gadget, e in tanti altri elementi alloggiati nei suoi fantasmagorici negozi milanesi, veri e propri luoghi di aggregazione sociale e di sperimentazione: tra dj set e performance artistiche, è rimasta indimenticabile l’installazione di Keith Haring nello store in Galleria Passerella, realizzata in un paio di giorni nell’ottobre del 1983: graffiti a colori fluo creavano un’esperienza immersiva e pop in un sotterraneo privo di pregio architettonico.
Durante gli anni di piombo, tensioni di classe e contestazioni, la sua moda va a esprimere la vena più graffiante e sprint del mondo giovanile e del mondo dello spettacolo. La sua moda è spettacolo, sia quando una giovane Loredana Bertè posa davanti alla sua vetrina sia quando lo stesso Elio trascorre le proprie serate newyorkesi allo Studio 54 assieme a Grace Jones, un’esordiente Madonna ed Andy Warhol.
Il lavoro di Fiorucci ci appare oggi come una dimensione fluida e permeabile. Attraversato dalla musica, dallo stile, dai linguaggi della pubblicità, da intuizioni innovative nel design dell’abito, ma anche dalle nuove tendenze dell’interior design, che in quegli anni andavano condensandosi nel cosiddetto “postmoderno”. I suoi negozi – dal ’67 quello di San Babila, dal ’74 quello di via Torino, oltre a quelli aperti nei due decenni successivi in giro per il mondo su progetti di Sottsass, Mendini e De Lucchi – erano diventati ambienti ad alto contenuto esperienziale e sensoriale. La clientela veniva inondata da vestiti luci, colori, profumi e tante altre tipologie di oggetti che andavano a completare organicamente quel vivacissimo luna park merceologico.
Elio Fiorucci intercettava, metabolizzava ed era capace di generare a concretezza visiva e fisica. La mostra in atto a Milano, per definizione, non è in grado di restituire quella complessità e quella ricchezza estetica, specie davanti agli occhi di chi l’ha vissuta in modo diretto ed entusiastico – fra questi, chi scrive. I vari archivi hanno consegnato sicuramente tanti oggetti, tante testimonianze, ma quel mondo era ben più caleidoscopico e complesso. È vero che le invenzioni di Fiorucci erano il frutto di fenomeni frammentari e intuitivi, ma una loro narrazione, appunto, frammentaria rischia di rivelarsi anche riduttiva, soprattutto perché la mostra è rivolta a tutte le generazioni, da quelli che hanno vissuto quegli anni di profondi cambiamenti fino a coloro che iniziano a esplorare un capitolo particolarmente significativo del Made in Italy.