“Palazzina Laf” una storia tutta italiana di Michele Riondino

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Un attore che riesce molto bene a fare il suo lavoro anche dietro la macchina da presa è Michele Riondino, che  alla Festa del Cinema di Roma ha calcato il tappeto rosso come protagonista della serie Disney I Leoni di Sicilia e con il suo primo film da regista, Palazzina Laf.

Senza proclami ridondanti Riondino riesce infatti nella sua impresa di portare all’attenzione del pubblico un tema tutto italiano, legato a una delle acciaierie più importanti d’Europa. Si tratta di uno scandalo avvenuto all’interno dell’organizzazione subito dopo l’acquisto della ILVA di Taranto da parte della famiglia Riva. La Palazzina LAF, Laminatoio A Freddo, da cui si trae il titolo del film, era un luogo tristemente esistito dove il personale d’ufficio risultato in esubero era stato confinato senza mansioni  affinché cedesse alla richiesta della dirigenza di rassegnare le dimissioni o addirittura  accettare un  contratto di demansionamento da impiegatizio a operaio.

Questo mobbing durato diversi mesi, alla fine degli Anni Novanta, ha ispirato il regista, che è anche il protagonista della storia. Con semplicità ed assoluta efficacia Riondino, che ha firmato anche la sceneggiatura del film, racconta l’avvenimento attraverso gli occhi di un operaio di belle speranze il quale, pur di migliorare la propria situazione personale ed economica, accetta di essere trasferito nella palazzina dismessa per fare al dirigente un resoconto periodico di ciò che avviene fra i dipendenti esiliati.

Ogni tentativo di ribellione quindi, grazie alla delazione di Caterino, questo è il nome dell’operaio, viene disinnescato prima ancora di poter essere organizzato. L’onda emotiva prodotta da ogni stratagemma per evadere dalla situazione di immobilità e depressione e dalla sua conseguente  sovversione travolge sia i ribelli che gli spettatori in un gioco di profonda incertezza. Sullo sfondo degli accadimenti Riondino, tarantino di origine,  fotografa un polo industriale del mezzogiorno abitato da una comunità laboriosa, vittima di un ambiente malsano, il più delle volte rassegnata a destreggiarsi senza via di scampo nella ruota del criceto per generazioni. Il regista tuttavia lavora sulla dignità della classe lavoratrice  restituendogli ciò che i capi cercano di togliergli e lo fa disegnando questi ultimi con tratti viscidi e squallidi di piccoli esseri disumani che girano  per lo stabilimento tronfi,  credendo di contare qualcosa ma finiranno, anche loro, nel buco nero dell’indifferenza fino a quando non verranno chiusi  dietro le sbarre.