Coinvolgente ed empatico, dissacrante, ma non per questo offensivo. È Daniele Tinti, comico romano di origini aquilane, classe 1990, conduttore del podcast “Tintoria” e tra i partecipanti di “Battute?” che ha lanciato le nuove leve di una comicità lontana dal vecchiume di un umorismo di tormentoni e stereotipi, portato avanti soprattutto grazie al suo spettacolo “Ugos”. Un viaggio tra la sua esperienza di volontario in Africa, il rapporto con l’esperienza del terremoto e l’università. Trattando temi difficili con una potenza comica esplosiva, ma anche portatrice di dubbi e riflessioni.
Gli ultimi anni hanno evidenziato un cambiamento della scena comica italiana. Cosa ne pensi?
È vero che c’è stato un cambiamento. Un cambiamento che spero consista nel riportare le persone a vedere spettacoli comici dal vivo. Non solo nelle grandi rassegne televisive ma anche in locali più piccoli. Portando un ritorno al passato, che io non ho vissuto, lontano dai platter televisivi per un ritorno al pubblico al locale di quartiere, anche periferico. Che pensa globale perché si rifà agli schemi della comicità del mondo anglosassone, ma che agisce locale adattando questi schemi e lavorando sui territori, dai locali della periferia ai grandi teatri
Che ricordo hai di “Battute”?
L’esperienza di battute è stata particolare, come del resto era particolare il suo format. Dove un gruppo di comici si riunivano su questo tavola rotonda, che poi era rettangolare, a commentare le notizie del giorno , mentre erano state già commentate da migliaia di utenti social, oltre che alle difficoltà del meccanismo delle prenotazioni che è anticomico. Però la sfida a superare questo meccanismo ha creato dinamiche creative molto interessanti che lo ha reso un grande progetto e una bella esperienza
Un momento a cui particolarmente sei legato?
Il momento a cui sono più legato è fuori dal programma ed è la fase di preparazione al programma in una sorta di workshop mentale a Fiano romano in questo albergo di camionisti e amanti, in cui c’erano questi venti comici che provavano battute ad un tavolo. Li ci siamo conosciuti ed abbiamo creato una grande squadra. Poi sono molto legato con Rapone
Quando hai capito che volevi essere uno stand up comedian, e ti definisci tale?
Io mi definisco come un comico. Ho iniziato a fantasticare di fare il comico vedendo gli spettacoli di stand up comedy americana mente ero in Erasmus, poi partecipai ad un open mic condotto da Ferrario, Raimondo e De Carlo. E facendolo ho deciso che avrei deciso di continuare
A quale momento di Ugos sei più legato?
Il capitolo a cui sono più legato è certamente sull’aquila, che parla della mia esperienza relativa al momento successivo al terremoto che mi ha portato a lasciare la mia città. Uno dei momenti più drammatici della mia vita e che riguarda quell’esperienza di confronto con quel trauma collettivo. Mi ha fatto molto piacere portare sul palco una parte di quello smarrimento e di riuscire a far ridere con esso . Perché secondo me il comico deve far porre delle domande tramite la risata. L’obiettivo è far ridere e poi riuscire a far smuovere le idee. Senza però dare delle risposte. Il comico non deve dare una versione giusta ma deve mostrare la diversità del mondo e mostrarla tramite la risata.
Dopo lo stop del covid hai concentrato le tue energie su “Tintoria”. come è nata l’idea? E a quali ospiti sei più legato?
Tintoria nasce come un podcast per far raccontare liberamente le persone. Attraverso interviste lunghe che però non devono raccontare quello che fai ma quello che sei. Far parlare gli ospiti, comici e non, che prospettiva hanno sulle cose. Basata più su una chiacchierata che una intervista. Sono più legato a quello a Judah Friedlander, stand up comedy americano, puntata girata in un ristorante di Trastevere all’una di notte dove partimmo in motorino con l’attrezzatura. Oppure quella a Carla Pol che sta facendo la stand up quella vera, in Inghilterra del nord alternando il lavoro in una company con le esibizioni nei pub a New Castle, facendo davvero la gavettA.