Questa pandemia finirà, perché tutte le cose hanno una fine, ma forse dovremmo trarre un grande insegnamento da questo periodo: non possiamo aggrapparci a nulla.
Non c’è niente di certo. Non dura la sofferenza ma non dura neanche la felicità. La vita è fatta di piccoli momenti che fluiscono, di onde che vanno a vengono e che ogni volta portano sulla battigia qualcosa di diverso.
Nulla dura per sempre e non c’è nessuna certezza. Domani potremo non essere qui, ma invece d’impazzire, di cercare di trattenere, d’illuderci che ci sia qualche sicurezza, di provare attaccamento, sarebbe meglio imparare a godere di ogni attimo come se fosse l’ultimo, accettando la transitorietà.
In questi ultimi mesi abbiamo perso qualcosa o qualcuno, un lavoro, una persona cara. Avevamo piani e progetti che abbiamo dovuto accantonare o abbandonare completamente. Abbiamo visto quanto sia inutile fare progetti, programmare, eppure non possiamo rinunciare a sognare, a pianificare. È giusto pensare al domani nonostante la fugacità di ogni istante. Siamo nati per andare avanti, per guardare al futuro, anche se la maggior parte di quello che avviene nelle nostre vite è frutto del caso, della fortuna o della sfortuna, oppure, per chi ci crede, del destino. Che ci sia o no un percorso già scritto, che tutto avvenga per un motivo oppure no, non possiamo smettere di remare. Dobbiamo essere capaci di affrontare tempeste e giornate di sole e soprattutto non possiamo continuare a far finta che la morte non esista.
La frustrazione continuerà a far parte della nostra vita se non saremo capaci di lasciar andare quando è giunto il momento. Addirittura a volte non rinunciamo a qualcosa o a qualcuno -che magari ci fa pure male- soltanto per orgoglio o per sentirci meno soli. Per non sentire la paura.
Se una volta caduti in acqua continuiamo ad agitarci in preda al panico, finiremo sicuramente affogati. Non dobbiamo sbracciare, non dobbiamo perdere il controllo, non dobbiamo porre resistenza. Si perdono una marea di energie rifiutando quello che non si può cambiare.
Spesso sono proprio i nostri pensieri ad aggiungere sofferenza a una situazione. È come quando ci si schiaccia il dito con un martello; c’è il dolore, la sensazione fastidiosa e intensa, ma poi il dolore passa se non cominciamo a inveire, a odiare tutto e tutti, a portarci dietro il ricordo di quel momento, dicendoci pure “ecco, capita sempre a me, sono un incapace, non ne faccio una giusta, che male, come farò domani a lavorare, quanto durerà, e se perdo il dito o mi cade l’unghia…”. Ci perdiamo in pensieri catastrofici anche quando ci schiacciamo un dito, figuriamoci quando dobbiamo affrontare un lutto o una pandemia.
Noi occidentali siamo troppo attaccati a questa vita anche perché siamo sempre più agnostici, atei, e non ci sarebbe nulla di male in questo se non portasse a un’ossessione per l’esistenza, per un rifiuto della caducità umana. Rinnegare la morte e farne un tabù vuol dire rinnegare il senso stesso della vita, vuol dire rigettare la notte pretendendo che solo il giorno continui a esistere, per sempre. Riusciamo a scorgere l’assurdità di un simile concetto? Riusciamo a capire quanto la morte sia necessaria a rendere la vita degna? Possiamo provare a mollare la presa dalle cose che amiamo e da quelle che odiamo? Possiamo provare ad accettare la realtà e vedere cosa succede?