In viaggio metafisico alla ricerca di Ettore Majorana

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Segnatevi questo nome perché ne sentirete parlare. William Lombardo, palermitano di cuore, è un giovane regista dal grande talento che, dopo aver maturato una propria idea di cinema attraverso importanti esperienze sul campo, è arrivato a dirigere il cortometraggio “La particella fantasma”, affiancato da grandi maestranze come il truccatore Andrea Leanza, candidato ai David di Donatello per “Hammamet”, il direttore della fotografia Gabriele De Palo e nelle vesti di protagonista, l’attrice rivelazione Denise Sardisco (Martin Eden, Nero a metà).

Di cosa parla il tuo lavoro, “La particella fantasma”?

Narra del viaggio condotto da Maria Majorana, sorella del famoso scienziato scomparso, Ettore, che non convinta della morte del fratello decide di andare a trovarlo per riportarlo a casa, ma quello che all’inizio sembra un viaggio fisico diventerà qualcos’altro, addirittura metafisico.

Anche dal tuo precedente cortometraggio dal titolo “La radio” si evince una passione riguardo al personaggio di Ettore Majorana e il mistero relativo alla sua scomparsa. Come sei entrato in contatto con questa figura e cosa ti ha colpito di più?

La figura di Majorana mi ha colpito in età adolescenziale, perché al liceo ci fecero leggere il saggio di Leonardo SciasciaLa scomparsa di Majorana” che è un testo fondamentale per chiunque voglia avvicinarsi alla vita e al mondo di questo misterioso scienziato. Non era una vera storia ma una serie di ipotesi supportate dall’incrocio tra la personalità di Majorana come scienziato e i dilemmi umani che lo avevano attanagliato. Avevo sedici anni e quello fu il primo gradino di una scala. Poi ho conosciuto il professore Erasmo Recami che è il biografo ufficiale di Majorana e dunque ho pensato, parlando con lui, che ci fossero le basi per un cortometraggio anche perché mi consigliò di esplorare la famiglia Majorana, dato che ancora nessuno lo aveva fatto. Così mi fece leggere dei documenti inediti dove si parlava di Maria Majorana ( interpretata nel corto da Denise Sardisco) e dunque mi si aprì un mondo, perché capii che c’era qualcosa che andava oltre la scienza ed era il rapporto fraterno. Così, la molla da cui scattò tutto fu una domanda: “Che cosa siamo disposti a fare per trovare una persona scomparsa e fin dove possiamo spingerci con la nostra credenza, con la nostra mente?” Mentre Ettore era scientificamente e filosoficamente molto quadrato, lei era una sognatrice dalla grande spiritualità, il che ha influito, inevitabilmente, anche sulle scelte visive/stilistiche all’interno della pellicola. La cosa che mi ha colpito di più è stato il rapporto tra i fratelli, il fatto che Maria non abbia mai smesso di cercare Ettore dal 1938, fino alla sua morte avvenuta negli anni ’80. Questo è stato fondamentale per me perché dava una dimensione umana alla scomparsa, oltre che mitica.

Da piccolo invece hai avuto l’altra grande folgorazione che è quella del cinema. Com’è avvenuta?

Diciamo che i miei primi ricordi del cinema sono legati a mio padre perché era lui che mi portava a vedere i film e poi era uno che viaggiava tanto per lavoro, quindi il nostro punto di contatto lo trovavamo nel week-end, quando il sabato era a casa e ci sedevamo sul divano a guardare tutti i film di Ridley Scott e di Steven Spielberg, di cui ricordo particolarmente “Incontri ravvicinati del terzo tipo” anche perché è il suo film preferito. Quindi era bella la sensazione che provavo stando a casa a guardare film con mio padre. Poi visionando “Indiana Jones”, “Jurassic Park” o “Alien” ho cominciato a chiedermi: “Ma come fanno?”, quindi è stato a forza di guardarli che mi è venuta la curiosità di vedere il dietro le quinte dei set. Ricordo che un giorno papà comprò un Dolby Surround 5.8 con un televisore della Samsung. Con sé aveva i dvd di ”Jurassic Park” e ”Il gladiatore” e negli extra c’erano tutti i retroscena, che cominciarono ad affascinarmi anche più dei film. Quindi tutto è nato ed è legato alla figura di mio padre.

Quindi il tuo mito d’infanzia chi era, Steven Spielberg?

Si. Perché nei suoi film, soprattutto “Incontri ravvicinati del terzo tipo” c’era quell’idea di musica, di comunicazione che mi affascinava molto e che poi, in qualche modo, ho riportato anche nei miei lavori. Anche la spiritualità che c’è in Spielberg. In realtà quel film in particolare è stato di grande importanza nella mia scelta di fare il regista, perché c’era l’idea comunicativa verso l’altro ma anche la riflessione su chi siamo noi rispetto al cosmo. Ho sempre cercato una risposta più spirituale che scientifica a queste domande e appunto, quando ho girato “La particella fantasma” ho deciso di raccontare Ettore Majorana sfruttando le sensazioni e i ricordi spielbergiani che mi portavo sin da bambino. L’idea era quella di narrare una storia estremamente italiana ma con un linguaggio che era figlio di quel cinema americano che amavo nell’infanzia e che trovo sia universale. Lavorare sullo scientifico ma con grande spiritualità. In fondo c’è sempre una speranza dentro di noi che ci fa andare avanti anche nei momenti più bui e credo che il cinema sia anche capace di questo. Anch’io, quando subisco un evento pesante come un lutto o uno scazzo lavorativo, capisco che la cosa migliore è chiudermi nella mia stanza, guardare un film e trovare una risposta alla vita. Per me questo è il cinema e “Incontri ravvicinati del terzo tipo” ne è la prova perché ancora oggi, nei miei progetti, cerco di dare quelle emozioni che ho provato grazie a Spielberg. Poi, parliamoci chiaro, nella settima arte nessuno inventa nulla, tutti sono figli dei film che hanno visto e amato e da quei registi traggono ispirazione.

Cosa è stato per te il cinema in età adolescenziale?

Ti dico la verità, per me è stato un rifugio. Non sono mai stato forte negli sport, a scuola ero bravo ma non eccellente e poi, anche per agganciare bottone con le ragazze…il cinema faceva figo. In realtà è tutt’ora un rifugio, perché io cerco di capire la vita attraverso i film, dato che quello è l’unico linguaggio che sento di padroneggiare, di comunicare. Sin da ragazzo avevo il bisogno di creare dei film nella mia testa che mi aiutassero a capire la realtà e che poi cercavo di mettere in scena con la videocamera di mio padre, una vecchia Sony. Ricordo che quando in classe chiesero a noi alunni cosa volessimo fare da grandi, tutti risposero: medicina, ingegneria ecc. e a me non fregava una mazza di tutta questa roba perché la domanda che mi sono sempre posto riguardo il lavoro è:” Perché lo faccio? Cos’è che mi fa alzare al mattino?” Poi ho avuto una botta di culo pazzesca perché grazie ad un mio corto sono stato notato dal sovrintendente dell’Istituto Nazionale Drammatico di Siracusa, una delle istituzioni teatrali più importanti d’Italia, così a diciassette anni mi sono ritrovato a fare l’assistente alla regia per Claudio Longhi e a lavorare con Massimo Popolizio. Ho lavorato per quattro mesi, tornando a Palermo nei fine settimana solo per fare le interrogazioni come se fossi all’università e sia i miei compagni che i miei professori mi odiavano perché credevano che io me ne fottessi della scuola.

Capisco perfettamente. Anch’io non ho trovato dialogo con molti professori.

Perché per loro era come se uscissi da un canone. Devo dirti che ancora oggi, dopo tutti i progetti che ho fatto, quell’esperienza del teatro greco resta per me qualcosa di indelebile, il cui grado di piacere non sono riuscito a replicare su nessun set.

La particella fantasma” vanta tra i protagonisti l’attrice Denise Sardisco che tutti ricordiamo in “Martin Eden” di Pietro Marcello. Come hai lavorato sul set con lei e con gli altri attori?

Premettiamo che all’inizio avevo in mente un’altra attrice che, ad un mese e mezzo dalle riprese, è andata a girare un altro film. Insomma, sono rimasto senza una protagonista. Poi però, per causa del destino, mi trovai al cinema a vedere “Martin Eden”, dato che amo Marinelli, e notai questa ragazza. Così mi chiusi in sala per tre giorni di fila mentre la produzione mi cercava per avere una risposta sulle altre attrici che mi proponevano. Poi, dato che di “Martin Eden” non esistevano clip ho preso il cellulare e ho registrato delle scene durante le proiezioni, in maniera clandestina. Ero deciso, l’attrice era lei. Dopo essere stata contattata ha registrato un self-tape sulle due scene più complicate del corto ed erano perfette, solo dopo ho scoperto che nel frattempo era stata male. Denise per me è un’attrice totale perché vive per questo mestiere ed è nata per recitare. Avrebbe potuto giocare a fare la diva, dato che proveniva dal successo del film al Festival di Venezia, invece amava stare sul set ed osservare tutti i reparti, il ché ha aiutato tantissimo anche perché credo molto nel lavoro di ogni maestranza sul set. Lei sa come deve muoversi davanti ad ogni tipo d’inquadratura, anche se non glielo dici, perché è molto attenta ed ama quello che fa. È un’attrice che studia il personaggio nei minimi dettagli e poi ne discute col regista, ad esempio una volta mi ha spiegato l’idea che aveva sui capelli di Maria e quella abbiamo utilizzato. Poi voglio ringraziare la produzione, Daniele Occhipinti e Paolo Guerra, che mi ha permesso di aver il cast che volevo e quindi ho potuto lavorare con Vincenzo Pirrotta (La città ideale, Il traditore, Il Primo Re, Il cattivo poeta), Vincenzo Crivello (Il sangue dei vinti, La vita promessa), Giuseppe Spata (prossimamente in Tutta colpa di Freud-la serie).

Quali sono state le maggiori difficoltà che hai riscontrato su un set di così grande portata?

Di sicuro gli effetti speciali, perché utilizzavamo molto il blue screen e quindi non avevo i classici riferimenti a cui ero abituato su set normali. È stata di sicuro una grande palestra.

Per concludere, ci racconti un episodio assurdo riguardo al cinema nella tua adolescenza?

Quando girai un cortometraggio horror ispirato a “L’ultima casa a sinistra” di Wes Craven marinai la scuola assieme ai miei amici e andammo sul monte Pellegrino di Palermo, portando con noi un’ascia vera. Ad un certo punto, la ragazza che interpretava la vittima non riusciva ad urlare bene, allora dissi al mio amico malato di biologia: “Prendi dei lombrichi e senza dirle nulla glieli lanci addosso.” Ottenemmo la reazione desiderata, solo che in quel preciso istante passarono dei carabinieri e quelli, dopo aver sentito l’urlo videro questo tizio, il mio amico, vestito con un giaccone da medico sporco di sangue e armato di ascia e così ci portarono in questura. Mio padre mi disse che ero l’unico ragazzo che aveva marinato la scuola e sia era fatto beccare non per vedermi con qualche ragazza, ma per girare un film. Se ci penso, rido ancora.