Sembrava uno dei concorrenti più accreditati per la vittoria finale Maxwell Alexander, l’americano della decima edizione di Masterchef, il cooking show di Sky seguito ogni giovedì sera da un milione di persone. I suoi manicaretti frutto di viaggi, curiosità ed esperienza internazionale – la settimana scorsa – non gli hanno risparmiato l’eliminazione, costringendolo a slacciarsi il prezioso grembiule per sempre. A nulla sono valse molte prove vinte tra le quali la perfetta sfera di cioccolato con all’interno tiramisù giudicata eccellente dal temibile maestro Iginio Massari, il pasticcere tra i più noti al mondo. Maxwell vive oggi a Roma e si gode la pensione, dopo tanti anni in America ad occuparsi di cinema, tra cui la direzione di “Variety”, la rivista più importante al mondo nel settore. Lo abbiamo raggiunto per una chiacchierata, tra cinema e cibo.
Max, ha portato nella cucina di Masterchef tanto gusto ed eleganza, passione, coinvolgendo tantissimi fan, ora orfani, che l’hanno vista uscire prematuramente.
«Mi dispiace, puntavo alla vittoria. Non mi aspettavo che l’esperienza sarebbe stata facile, tutto ciò che vale la pena nella vita è difficile da ottenere. Mi aspettavo di essere sfidato ed uscire più avanti semmai, a ridosso della finale, ma è andata così. Sono triste di aver deluso chi faceva il tifo per me: spero di aver mandato il messaggio che non si deve aver paura del fallimento. Non si può vincere sempre».
Per voi americani vale il motto “l’importante è partecipare”?
«No, è una schiocchezza. L’importante è impegnarsi e cercare di vincere, poi se si sbaglia e si perde si riprova. Facendo sempre meglio con il tesoro dell’esperienza».
Cosa la affascina della cucina italiana?
«Come la maggior parte degli americani amo la cucina italiana per il rispetto degli ingredienti, che in Italia non si nascondono mai sotto strati di salse complesse come invece si usa in Francia. In Italia gli ingredienti sono sempre freschi, e sempre in primo piano. Ovviamente l’America ha milioni di immigrati italiani che hanno portato con sé la loro cucina. Oggi gli americani hanno una migliore comprensione della vera cucina italiana e degli ingredienti migliori grazie a voi: ci avete insegnato a mangiare».
A quale piatto rinuncerebbe e cosa importerebbe dall’Italia?
«Negli Stati Uniti è difficile trovare buoni carciofi, rinuncerei agli spaghetti con le polpette che fa troppo “Quei bravi ragazzi” e provo disgusto per la pizza all’ananas che purtroppo nel mio Paese ha preso piede pensando di essere alternativi e gourmet».
Parliamo di cinema, lei ha diretto per tanti anni “Variety”, la bibbia di Hollywood. Come resistere alle pressioni delle major?
«Con il rigore e la passione, lavorando in modo premuroso e attento, organizzandosi bene e seguendo il cuore».
È preoccupato per l’uscita dei blockbuster sulle piattaforme o pensa che, a pandemia finita, tutto tornerà come prima?
«Penso che torneranno i cinema, soprattutto per i giovani che vogliono scappare dai loro genitori almeno per una serata. Ciò significa più blockbuster di supereroi che piacciono ai teenager in sala, ne sono certo».
E il pubblico più adulto?
«Userà il tempo libero per altro. Penso che la pandemia abbia dimostrato che gli adulti siano molto felici di guardare i film a casa, sui televisori a grande schermo. Quindi i film “più seri” saranno probabilmente destinato allo streaming su piattaforme, senza passare per la sala».
Di cosa si sta occupando adesso, quali progetti ha?
«Ho intenzione di fare qualcosa nel campo della cucina. Potrei scrivere un libro e dedicarmi ai video in streaming. Mio figlio e mia nuora calabrese hanno un canale YouTube di cucina, si chiama PastaGrammar, con più di 100 mila follower. Quindi sto pensando alle idee con loro. Forse faccio qualcosa con la mia amica Arianna Paparelli che è una chef a Roma. Vedremo».