Il “Sole” sorge ancora sul Cinema italiano

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Carlo Sironi, figlio d’arte del compianto regista Alberto Sironi, è uno degli autori più interessanti del nuovo panorama italiano. La sua straordinaria opera prima, “Sole”, è stata accolta da grandi applausi da parte della critica e del pubblico nei numerosi Festival a cui ha partecipato. Il suo è un film dal tratto esistenziale, in cui la maternità surrogata non diventa il tema principale, ma soltanto un punto da cui partire e questo denota un’enorme capacità di racconto, nonché di messa in scena, proprio perché, non legandosi ad una banale visione sociale diventa un’opera. Diventa arte.

Sole” è uno di quei film che per tutta la durata sembra osservare il pubblico per poi esplodere in un climax di emozioni così forti da toccare le corde più intime. Com’è stato girarlo?

Girarlo è stato molto divertente perché c’era una grande complicità con Sandra e Claudio, i due protagonisti, e poi era un set fatto di poche persone, molti amici, pochi ambienti. Quindi non è stato difficile girarlo, a parte la scena finale, che era molto dispendiosa soprattutto per loro due ed è una sorta di balletto che abbiamo coreografato. Siamo stati mezza giornata a fare solo quella scena ed è stata quella più difficile, soprattutto per Carlo che veniva picchiato sul serio da Sandra.

Parlando dei protagonisti, come hai fatto a trovarli e che cosa ti ha colpito di loro?

Guarda, io in realtà ho cercato prima lei perché sapevo da subito che sarebbe dovuta essere un’attrice professionista straniera, in quanto il ruolo lo richiedeva. Soltanto che doveva imparare la lingua ma sapevo che avrebbe dato più forma al film anche perché credo che gli attori che scegli cambino poi il linguaggio visivo del film. Quindi abbiamo ricevuto diversi self-tape da parte di molti paesi dell’Europa dell’est e inoltre ho incontrato delle ragazze a Kiev, a Varsavia e quando ho incontrato Sandra Drzymalska ho capito che l’avevo trovata, con quella sua leggerezza e quel tono infantile. Mentre lei imparava l’italiano per il film, io sono andato alla ricerca dell’altro personaggio, cercandolo direttamente nei licei, anche perché volevo che fosse un non professionista e quando l’ho trovato, Claudio Segaluscio, era esattamente ciò che avevo scritto, quel che avevo in mente dall’inizio. Poi abbiamo avuto la fortuna di fare delle prove, anche perché lei la dirigevo in inglese (in italiano conosceva solo le battute del copione) e lui invece parlava solo in italiano.

Probabilmente il fatto di non avere un contatto linguistico ha permesso ai due attori di dare vita a quel “non detto” che pervade la pellicola?

Credo che abbia aiutato soprattutto per il fatto che si studiavano sul set con più attenzione. Erano entrambi sull’attenti, lui perché era alle prime armi e lei perché recitava una lingua che non conosceva.

La scelta di un attore non professionista per un ruolo così importante ci riporta in mente un capolavoro del post-neorealismo, Accattone di P. P. Pasolini. Cosa ne pensi di questa scelta stilistica?

Io penso che alcuni ruoli necessitano di inconsapevolezza e a volte questa la trovi nei non professionisti. Altre volte semplicemente non trovi gli attori giusti. Poi, sui non professionisti credo che, in qualche maniera, ce ne siano molti che poi continuano la carriera attoriale perché semplicemente sono degli attori che non sapevano di esserlo. In fin dei conti tutti siamo attori, non solo chi ha scelto di sua spontanea volontà di seguire questa strada. Si tratta solo di scoprire qualcuno, a volte un attore, a volte qualcuno che aveva soltanto un ruolo da interpretare.

Nel film mostri una periferia che si discosta totalmente dal nuovo Cinema italiano, creando un legame quasi metafisico in cui i luoghi sembrano addirittura sospesi nel tempo. Come hai lavorato in questa ricerca?

Guarda, da un lato ero stufo del mostrare questo solito racconto della periferia, così aggressiva, con un fare sempre iper mascolino. Dall’altro lato non trovo esatto che il metodo di raccontare sia lo stesso, perché ogni luogo ha tutto un mondo fatto di comportamenti, storie diverse, ecc. Poi mi piaceva l’idea di girare in un luogo che fosse rimasto bloccato nel tempo, un po’ per dare l’idea che questa storia sarebbe potuta accadere anche vent’anni fa e anche in qualunque luogo. Quell’architettura rimasta alla fine degli anni ottanta, con quel razionalismo di certe case popolari che è simile in tutta Europa e quel quartiere di Nettuno dall’aria quasi abbandonata, anche perché vive solo l’estate, hanno dato forza alla pellicola.

E poi quest’altro volto periferico è anche più potente perché non è catalogabile in un quadro regionale, anzi, sembra addirittura di essere nel nord Europa, nell’est Europa.

Si, esatto. Volevo dare quella sensazione che potresti essere nel nord della Francia, nel sud dell’Inghilterra. Non volevo fare un film che si basasse sul folklore di quel luogo specifico.

So che sei un grande amante del Giappone, della sua cultura e ovviamente del suo Cinema. Ci puoi fare i nomi dei registi che hanno influenzato il tuo modo di concepire la regia ed in particolar modo il quadro registico-visivo di “Sole”?

Per questo film i registi che ho dato anche come riferimenti al direttore della fotografia sono Kenji Mizoguchi e Mikio Naruse. Gli altri che mi hanno influenzato in generale sono Nagisa Ōshima, Ozu, Sōgo Ishii, Teshigahara. La cosa strana del Giappone è che avessero uno studio system durissimo come se fossero gli Stati Uniti, quindi case di produzione che si specializzavano nel loro genere e i registi che non erano così liberi. Anche i film di Kurosawa erano su commissione, il che è strano. Nonostante tutto, hanno avuto per un quarantennio un numero impressionante di grandi registi e una qualità enorme di pellicole. Un po’ come noi che abbiamo avuto da De Sica in poi tanti maestri. Poi la cosa bella del Giappone è che ha una cultura che ha influenzato tutto il mondo in maniera molto forte, considerando i manga, il Cinema, la cultura animista. E poi il Giappone ha subìto uno degli eventi più assurdi dell’epoca moderna, la bomba atomica, che ha portato poi a dover spiegare l’evento in mille modi, ad esempio attraverso i cartoni animati con cui io sono cresciuto da piccolo.

Infatti, una volta hai detto che da bambino, mentre guardavi un anime giapponese, hai capito che eri spettatore di qualcosa che aveva in sé la regia.

Si, esatto. Da bambino vedi qualunque cosa in maniera scontata e invece ci sono alcuni cartoni animati che erano per ragazzi e che non avrebbero neanche avuto il bisogno di quella messa in scena ma erano costruiti benissimo. Ad esempio se rivedi adesso la prima puntata di “Galaxy Express 999”, il secondo cartone animato di Leiji Matsumoto che è anche il creatore di “Capitan Harlock”, ti fa impressione perché ti sembra un film con un linguaggio modernissimo, super curato, e resta un cartone per bambini. Impressionante.

È vero anche che gli anime giapponesi hanno influito su tutti noi, basti pensare all’impatto che ha avuto il film “Lo chiamavano Jeeg Robot”.

Guarda, la cosa impressionante è che la mia generazione e quella prima ancora è cresciuta totalmente con quei cartoni. Era un altro tipo di intrattenimento.

Sappiamo entrambi che l’opera prima per un regista, soprattutto in Italia, è un trampolino nel buio. Il tuo “Sole” è stato selezionato nella sezione orizzonti al Festival di Venezia, al Festival di Toronto, ha vinto il Ciack d’oro 2020, sei stato candidato ai David di Donatello della scorsa edizione come miglior regista esordiente ed infine hai vinto il premio rivelazione agli Efa. Come vedi il futuro degli esordienti italiani?

Guarda, è retorico da dire però è vero, l’opera prima è importantissima perché ci arrivi più tardi ed è sempre più difficile trovare un budget. Però allo stesso tempo nell’opera prima vogliono solo vedere chi sei e che tipo di idea di Cinema e di racconto hai. Quindi io ho capito una cosa nel girare i corti, che uno deve essere sincero non solo a quello che gli piace ma anche nel mostrarsi. Quindi bisogna dimenticarsi delle mode del momento, di quello che va. Ad esempio, all’inizio, in molti mi chiedevano perché avessi l’idea di girare in un formato 4:3 dato che da noi è poco utilizzato. Uno deve fare quello che si sente, in maniera mai presuntuosa e se ha un’idea interessante verrà fuori un buon lavoro. È ovvio che sei più libero perché hai meno vincoli che verranno dopo.

Non vorrei sembrarti sentimentale ma so che da piccolo guardavi determinati film grazie a tuo padre, che ti leggeva i racconti di Hemingway, e grazie a lui hai scoperto l’importanza di un capolavoro di Ingmar Bergman, “Fanny e Alexander”.

Si, è il mio film preferito.

Quanto ti ha dato quel film e quanto ti ha dato il rapporto con tuo padre rispetto al Cinema?

Il rapporto con mio padre non era legato al lavoro. Di sicuro è stato utile guardare determinati film da piccolo perché credo che mi abbia influenzato. Ricordo di aver visto con mio padre dei film di Chaplin o di Murnau, ma solo perché lui stesso se li stava rivedendo ed era un modo per stare insieme. Una volta ha fatto vedere a tutta la famiglia la vhs di “Fanny e Alexander”, io avevo dodici anni ed è stato così forte che ne sono rimasto affascinato.

Che cosa ha significato per te vincere agli Oscar europei lo stesso anno in cui ha stavinto Thomas Vinterberg, che per tutti i cinefili è un idolo della nuova scuola danese?

È stato un risultato inaspettato, già alla candidatura abbiamo esultato con Giovanni Pompili, il produttore della Kino Produzioni, come se avessimo vinto. La cosa che mi rende più contento è che si tratta di un’opera che i giurati non necessariamente conoscevano già e quindi hanno votato valutando il film proprio alla prima visione. Quindi fa più che piacere sapere che i migliori professionisti del Cinema europeo hanno valutato positivamente il tuo film. Poi “Druk” l’avevo visto nei Festival e devo dire che è stupendo.

Qual è il consiglio che daresti ai giovani registi che devono affrontare l’opera prima?

È banale la mia risposta ma credo sia la verità. Bisogna guardare tanto Cinema ma lasciandosi influenzare anche da tutto il resto, dalla pittura, dalla musica, dalla fotografia e non solo. E poi chi già ha diretto dei cortometraggi avrà maturato in sé uno stile, una visione…

1 commento

  1. Ammiro le storie che sono oneste e aperte sulla maternità surrogata. Aiuta come donna semplice a capire che possiamo ancora diventare mamme un giorno con l’aiuto di una madre surrogata. Mio figlio è nato tramite maternità surrogata in una delle cliniche ucraine (Feskov Human Reproduction Group). Sono molto orgogliosa di aver potuto fare questo viaggio speciale, con l’aiuto del team professionale della clinica è nato un bambino bello e sano. Non capisco perché dovrei vergognarmi di questo. Ho incontrato e parlato molto con le madri surrogate, non c’è sfruttamento. Sono state fornite di tutto ciò di cui hanno bisogno, mentre portano il bambino.
    Per quanto riguarda la maternità surrogata, ho trovato una legge ucraina tradotta in italiano. Consiglio a tutti di leggerlo. https://maternita-surrogata-centro.it/maternita_surrogata.pdf

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