“Il nostro primo pessimo concerto davanti ai discografici Virgin..”

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Ph. Solange Souza

C’è bisogno di fare rumore per riempire con la musica il silenzio lasciato dal Covid. Il dj Alex Neri, tra i fondatori del gruppo Planet Funk, è stato il protagonista  alle “Serre Torrigiani” di Firenze – il più grande giardino privato d’Europa- del secondo episodio di “Total Volume Project”, format lanciato a Roma da Luisa Berio con Ursula Seelenbacher. Alex Neri si racconta a Off, partendo dal suo approccio al pianoforte all’età di 9 anni fino al successo internazionale che “il destino” gli ha regalato con i Planet. Senza dimenticare la pessima performance in Portogallo che però la band ha saputo trasformare in un’occasione di crescita professionale.

Ha iniziato suonando a 13 anni nel locale di suo padre.

Il primo approccio alla musica comincia con il pianoforte quando ne avevo 9. Negli anni ’70 mio padre era un dj e in quel periodo metteva dischi per hobby in una radio locale: quindi mescolando la passione musicale ed ereditando quella per i vinili è nata la mia avventura. Il locale di papà è stato fondamentale per comprendere le difficoltà di esporsi davanti al pubblico e, probabilmente, grazie ai miei 13 anni, l’incoscienza è stata la chiave che ha aperto le porte della mia carriera.

Non solo disc jockey, ma anche compositore e producer. Che cos’è la musica per lei?

È il mio tutto. Non conosco un altro mondo o un modo di pensare  e  ragionare senza. Per me ogni cosa è relazionata alla musica, praticamente la faccio da sempre.

Da Sarzana, dove è nato nel 1970 in provincia della Spezia, ai Planet Funk. Come vi siete conosciuti?

A Sarzana, in Liguria, ho conosciuto Marco Baroni con il quale ho condiviso a metà (dj a parte) l’intero mondo delle produzioni. Insieme a lui incontrai a Londra i Souled Out che nei primi anni ‘90 ebbero un grande successo mondiale. Quasi per magia ci ritrovammo in studio a Napoli e come primo esperimento componemmo “Chase the sun”. È il caso di dire “destino”.

Poi siete approdati a Mtv e al Festivalbar, conquistando il consenso internazionale. A chi è venuta l’idea di una band che, in Italia, tra sound elettronico e alternative rock, si ispirava ai Daft Punk e ai Chemical Brothers?

Dai Daft e dai Chemical abbiamo preso solo il concetto di collettivo, che all’epoca per l’Italia era considerato un po’ blasfemo. Per collettivo intendo una band non convenzionale che non  necessita per forza di un frontman. Infatti, se si pensa proprio a entrambi i gruppi, ci si rende conto che di loro conosciamo bene le canzoni ma non le facce degli esecutori. L’idea, quindi, nasce proprio da questo concetto, ma musicalmente direi che la fonte di ispirazione deriva dagli anni ’80, cercando di evolverla in un ibrido che poi, a mio avviso, è  il suono dei Planet Funk.

Un episodio off e divertente dal debutto nel 1999?

La situazione più assurda fu il nostro primo concerto in Portogallo. Suonammo davanti a tutti i discografici Virgin del mondo e fu davvero una pessima performance. Pensammo che quella sarebbe stata la nostra fine e invece, dopo aver accusato il colpo, iniziammo a lavorare molto per riuscire a mettere in piedi uno show di un certo tipo e da quella esperienza imparammo tanto.

A Firenze, dopo Claudio Coccoluto all’hotel St. Regis di Roma, è stato protagonista del progetto “Total Volume” alle Serre Torrigiani. Bisogna ripartire dal made in Italy in seguito alla pandemia causata dal Covid-19?

Ripartire dal made in Italy è un’esigenza e un dovere, anche perché al momento nessun artista straniero ha intenzione di venire in Italia. Secondo me “Total Volume” ha uno scopo diverso. Noi dj usciamo dall’emergenza sanitaria del Covid con brutte ferite e una delle maggiori cause è il fatto che, per qualche strana ragione, non siamo riconosciuti come musicisti che fanno cultura. Ciò vuol dire che siamo stati davvero abbandonati da tutti non avendo percepito alcun tipo di sostenimento da parte dello Stato come è accaduto per altre categorie. Preso atto di questo, iniziative del genere ci danno la possibilità di far vedere che il dj è un artista e va oltre.

“Who said” e “Inside all the people” sono super-hit del vostro repertorio. A cosa state lavorando per il futuro che, con  l’urgenza pandemica, resta incerto per disco club e amanti della notte?

Prima del lockdown stavamo lavorando al nuovo album e, proprio in questi giorni, ci stiamo organizzando per riprendere. Sinceramente il problema della nightlife è qualcosa che tocca maggiormente me in quanto dj,  mentre  come gruppo abbiamo la possibilità di fare musica sperando che venga ascoltata.

“Happiness” con la cantante Jocelyn Brown è un pezzo iconico. Dove sarà domani la felicità degli italiani?

Credo che gli italiani l’abbiano persa già da molto tempo, non solo con il Coronavirus. Quello che stiamo vivendo aiuta ad analizzarsi e sono convinto che ognuno di noi ritroverà la vera felicità nelle cose semplici che, forse, avevamo dato troppo per scontate.