Saturnino Celani, 50 anni, polistrumentista, compositore, produttore e… “testa di basso”. Con Jovanotti ha inciso ballate indimenticabili, viaggiato per mezzo mondo ed è entrato nelle cuffie e nelle casse di (quasi) tutti gli italiani.
Saturnino, ma davvero il tuo primo strumento è stato un violino?
«Confermo, ma più che altro perché me lo sono ritrovato in casa. Un mio trisavolo faceva il liutaio e mio padre aveva studiato lo strumento al conservatorio. Anche io l’ho studiato per anni ad Ascoli Piceno, salvo poi innamorarmi del basso elettrico e dedicarmi solo a quello, con il maestro Gianfranco Gullotto a Roma e poi a Milano».
Da dove nasce questo tuo amore per le quattro corde?
«Da giovane studente di musica rimasi “fulminato” dall’esibizione degli amici del quartiere che facevano cover degli Stones e dei Van Halen. Dopo averli visti volli a tutti i costi entrare nella band: sarebbe andato bene qualunque ruolo. Così, quando il bassista partì per il militare mi feci subito avanti, imparando l’intero repertorio della band in una sola settimana. Da lì in poi tutto quello che ho fatto nella mia vita l’ho fatto per il basso».
Dicci dell’incontro con Jovanotti però…
«Con Jova è successa quella cosa magica del “trovarsi al posto giusto al momento giusto”. Lorenzo, in cerca di musicisti giovani per una tournée, chiese qualche dritta al proprietario dello studio milanese dove registravo anche io. Quest’ultimo gli segnalò un batterista e un bassista marchigiano: il sottoscritto. A quel punto mi recai in studio per conoscere Lorenzo – con mia grande emozione poiché era già una star – e dopo averci parlato un po’ ricordo che mi chiese di registrare un assolo su un suo pezzo. Finito l’assolo, che sarà durato trenta secondi, Lorenzo disse: “sei libero per i prossimi sei mesi?”».
Il palco più emozionante della tua carriera.
«Ogni palco è speciale, anche quello dell’oratorio. Io ho girato parecchio con Lorenzo, ho suonato Caruso nel deserto, mi sono calato da un campanile suonando Beethoven, ho suonato accanto a Stef Burns ospite di Eros, ma te l’assicuro: l’emozione, quando stai per performare, è sempre la stessa. Non è il palco a fare la differenza, sei tu».
Ti sei mai sentito una rockstar?
«No. E mi fa sorridere ancora oggi che da bassista qualcuno ti possa riconoscere per strada, salutare o fare i complimenti. Pensa che ho incontrato Gail Ann Dorsey a New York (la bassista di Bowie dell’ultimo tour, n.d.r.) e non ho potuto non fermarla per farle i complimenti. Lei si è commossa perché l’ho riconosciuta e mi ha risposto ricordando quel periodo con un semplice: “glory days”».
Per concludere, raccontaci un episodio OFF della tua carriera.
«Erano gli anni ’90 e stavamo lavorando per il Pavarotti & friends a Forlì. Io avevo appena fatto l’intervento per togliere tutti e quattro i denti del giudizio e avevo “accusato il colpo”, diciamo. Ricordo dunque questa scena: il maestro Pavarotti stava mangiando un generoso piatto di tortellini e vedendomi impossibilitato a mangiare cibi solidi ha aspettato che il suo brodo si freddasse per poi porgermelo e imboccarmi lui stesso. Un siparietto assurdo. Pavarotti era simpatico, genuino, un artista e una persona vera. Una rockstar».