Quell’Arco Imperiale “politicamente scorretto” di Adalberto Libera

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Sono passati molti decenni, ma Adalberto Libera, maestro del Razionalismo Italiano, è sorprendentemente ancora attuale per essere stato un precursore nell’uso di materiali innovativi in Architettura. Il suo Arco Imperiale, pensato per avvolgere e comprendere con una forma simbolica di grande suggestione l’Esposizione Universale di Roma, prevedeva l’impiego di alluminio e una tecnologia costruttiva appositamente studiata. La scelta di questo materiale, che coincise con lo sviluppo delle prime industrie di trasformazione in Italia, derivava, da un punto di vista tecnico-produttivo, dallo sfruttamento di giacimenti di bauxite, materiale presente in grande quantità in Istria, terra annessa all’Italia dopo la Prima Guerra Mondiale.

Non era solo una questione di valutazione economica e di facile reperibilità che portò a questa scelta, anche se in un clima autarchico ogni indirizzo aveva un significato preciso. L’Arco Imperiale rappresentava l’occasione di sperimentare non solo una soluzione tecnologica certamente nuova, ma anche di inserire un materiale, ritenuto moderno e avveniristico all’epoca, nella tradizione monumentale romana.

Un arco che si conformava a tutto sesto, volto ad assumere un preciso valore simbolico. Si studiarono varie versioni e leghe diverse per meglio rispondere alle esigenze tecniche progettuali. Alla fine prevalse una lega di Alluminio Rame Silicio, combinazione che avvicinava il materiale alle prestazioni meccaniche dell’acciaio, con il vantaggio però di avere una leggerezza e snellezza migliore. Un punto di arrivo certamente molto importante per ottimizzare la tecnica di realizzazione, che comportava valori di una certa rilevanza nel peso di circa 300 tonnellate e nella impostazione di base di circa 320 m. Un elemento tuttavia che sollevò non poche perplessità fu il destino che avrebbe avuto l’Arco dopo il termine del’Esposizione Universale: la sua inevitabile demolizione per le servitù di volo imposte dal’Aeronautica.

Ma ciò non potè accadere, perché l’Arco non fu mai realizzato per l’irrompere della guerra.

Adalberto Libera aveva pubblicato il progetto nel 1940. Da quel momento in poi molti progettisti si dedicarono alla rinnovata importanza della simbologia dell’Arco, che, per la verità perdeva via via il suo significato di riferimento storico per assumere una valenza commerciale e di semplice richiamo monumentale. Esempi in questo senso sono il progetto di Eero Saarinen a Saint Louis nel Missouri nel 1947 e gli archi della catena di ristoranti Mc Donald’s nel 1953, impropriamente chiamati archi, in quanto più assimilabili a parabole. Questi, come altri archi meno noti, ma fortemente presenti nel panorama urbano ed extraurbano, hanno svolto un ruolo di emblema, di importanza di un fatto commerciale o di mercato. Hanno così perso il loro significato originario di archetipo , riproponendosi nella banalizzazione di una presenza insignificante.

L’Arco di Adalberto Libera nasce nell’assolutezza del progetto, senza contaminazioni, per connotare di significato simbolico un complesso urbanistico e architettonico unico, quello dell’Esposizione Universale a Roma. Non se ne fece nulla, perché la guerra lo impedì, ma restò nella memoria della cultura nei tempi successivi, venendo proposta la sua fattibilità a più riprese.

Oggi questa eredità non deve andare dispersa, tenendo conto anche del vuoto di contenuti culturali in cui si dibatte il nostro Paese. Una risorsa importante e significativa, se si considera il concetto di contestualizzazione che ha ispirato la sua presentazione. Non un frammento di architettura o di scultura, non un’aggiunta ingombrante, ma un inserimento dialogico con il tessuto urbano.

E’ bene però porre una considerazione che, alla luce dei fatti, diventa una considerazione di principio. Il passaggio verso la progettazione non deve essere un ossequio verso gli architetti di “tendenza”, accettati e riveriti da entrambe le parti, destra e sinistra laddove queste categorie esistono ancora, secondo una visione selettiva e manichea di una cultura che azzera indifferentemente passato e tradizione.

L’architettura “politicamente scorretta”, perché estranea alla cultura di regime delle Università e del mondo editoriale, viene inesorabilmente trascurata dalla nomenclatura ideologica. Il politico, per sua natura oggi incapace e timoroso, trema all’idea di venir pubblicamente considerato passatista e retrogrado. Non si sbilancia, non prende posizione. Il sistema si sfilaccia sempre di più, cede il passo alla erosione del suo potere. La cultura non addomesticata però reagisce e sopravvive; si rigenera nel recupero dei suoi valori. E’ nella logica dei cicli della storia.

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Laureato in Architettura svolge la sua attività professionale a Milano dove apre uno studio di progettazione e consulenza nel campo edile e, nel contesto di iniziative parallele, si dedica a progetti di allestimenti e comunicazione a livello internazionale. Redige numerose relazioni di ricerca e approfondimento di temi tecnici e scrive libri per associazioni di categoria. Collabora a giornali e riviste con articoli di architettura, con particolare riferimento alla città e allo sviluppo urbano. Partecipa come opinionista a trasmissioni televisive nell’ambito di iniziative volte a descrivere con spirito critico la città nei suoi molteplici aspetti e funzioni. Attualmente sta preparando un libro sulla città globalizzata, sui rischi della perdita della sua identità in quella che la cultura sostenitrice del processo di assimilazione progressiva chiama “residenza disaggregata”.