Con Troilo esploriamo i nostri supplizi quotidiani

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Quando si va a perlustrare la natura etimologica di alcune parole del dizionario italiano, si discoprono mondi inaspettati e sfumature inedite di significati che sono capaci di ribaltare le convinzioni che tutti noi abbiamo avuto fino a quel momento. Tra le tante scoperte che si possono fare c’è quella che si ottiene a seguito dell’addentrarsi nei meandri del significato della parola “egocentrismo”. Ad uno sguardo attento, infatti, si scopre che la parola “egocentrismo” sta a significare: una “tendenza a ricondurre e subordinare, al proprio io, la realtà nei suoi aspetti gnoseologici e metafisici”. Già solo con questo accostarsi di parole, scopriamo una inattesa declinazione in positivo di una parola che, ingiustamente, forse per abitudine, nel tempo, abbiamo sempre adoperato per tacciare, piuttosto che per lodare, qualcuno. Se ci si soffermasse sulla imperdonabilmente sorvolata particolarità per cui, la vera protagonista di questa definizione sia, a ben pensarci, la “realtà” (e non il “proprio io” che, per l’analisi logica di cui sopra, è solo “complemento di termine”), poi, avremmo già il primo puntualissimo indizio di ciò che esprimono le tele di Paolo Troilo.

E’ questo infatti – con l’accezione più positiva possibile del caso – che Paolo Troilo esegue in ogni sua creazione e ogni qual volta che, attraverso la turbolenta e tempestosa linea che lo caratterizza, conferisce vita una sua opera mettendo in primo piano se stesso. Semplicemente ci aiuta a capire. Attraverso un codice estetico travolgente, vivace e irrequieto, esegue indagini sulla realtà, si inoltra in spericolate esplorazioni, non su di sé, ma sul mondo che ci circonda fatto di cose e uomini, di sentimenti e agiti; facendo di se stesso il mezzo per l’indagine e non il fine. E lo fa con la più virgulta e possente cifra stilistica che lo contraddistingue. Cerca di condurci nella comprensione delle cose attraverso l’analisi di noi stessi. 

Ecco chi sono i protagonisti delle opere di Paolo Troilo: gli uomini, i loro sentimenti, le loro contorsioni. Psicologiche e fisiche, di tutti i giorni. Troilo, riconduce lo spazio, il tempo, la realtà stessa, a se stesso, sì, ma per darci la possibilità di comprenderci, tra di noi, a nostra volta. E’ come se ci coinvolgesse in quel sentimento di felice angoscia che si forma, irregolare, in noi, dinanzi all’inesauribile imperfezione dell’universo e dei suoi uomini.

Paolo Troilo adopera se stesso, per scrivere la biografia di tutti. E’ possibilità di comprensione del nostro stesso mondo

Quelli di Troilo sono, in un certo senso, sì, dipinti biografici: ma, allo stesso tempo, non accostabili alla radice della parola “auto” (“biografici”), quanto piuttosto alla parola “pluri” (“biografici”). In definitiva, l’artista realizza delle vere e proprie “omnibiografie”, poichè Paolo Troilo adopera se stesso, per scrivere la biografia di tutti. E’ strumento della sua stessa forma; è possibilità di comprensione del nostro stesso mondo. Attraverso: spasmi, strazi e supplizi cerebrali, umani e corporei.

Laddove il corpo è, anch’esso, solo uno strumento, un pretesto, un volano, per riflessioni mentali, concettuali. Un biglietto aereo per il mondo delle idee. E tutta questa complessità è artisticamente rilasciata attraverso l’uso di quelle che sembrano “solo” due opposte monocromie: il bianco e il nero. Come a voler sottolineare che la vità è una cosa semplice. E non è una divisione, tra il bianco e il nero, che vuole arrogarsi la presunzione di dividere il mondo tra il giusto e lo sbagliato, tra il bene e il male o tra il buio e la luce. Sarebbe, quello sì, “egotico” e, anche, sopratutto, troppo banale. Al contrario, invece, anche loro stessi, il bianco e nero, in Troilo, risultano essere strumenti per “altro da loro”. Allegorie strumentali. Ciò a cui si deve fare assolutamente caso nelle tele potentissime di Troilo, è tutto ciò che può succedere nello spazio, nella dimensione, nei cromatismi, che si trovano all’interno della forbice che intercorre dal bianco al – suo opposto – nero. Questa è la vita, per Troilo: la varietà della sfumatura. E crea un canone, guardando un classico. Come il Pontormo, esse, volteggiano in un fare metafisico e surrelista, se si vuole: e sembrano provenire da alcun luogo e  andare da nessuna parte.

Sono specchio, dunque, provenendo e rimanendo solo in noi stessi. Sono noi. Sono sospese non solo sulla tela ma nella nostra rianimata fragilità. E vanno aldilà della realtà per la loro forza fisica, per la loro ingabbiata oppressione da cui tentano continuamente di fuggire, per l’assillo, il castigo e la persecuzione di cui appaiono continuamente essere vittime. Consapevoli di non riuscire ad essere racchiusi dall’importanza e la trasversalità di niente: nemmeno dell’arte stessa. Come noi che li guardiamo facendo erodere i nostri giorni e sgretolando il nostro tempo e, in fine, come loro che, immobili, rintracciati dall’arte, rimarranno lì: pronti, nel tempo a venire a ricordarci dei nostri dolori. Nella sola forma di egocentrismo sano possibile: ovvero quella al di là di tutte le definizioni frettolose.